dodici anni
Canticchiando una canzone di parecchi anni fa, mi rimbomba nelle orecchie un:
«settembre è il mese dei ripensamenti sugli anni e sull’età.
Dopo l’estate porti il dono usato delle perplessità.
Ti siedi, pensi e ricominci il gioco della tua identità
Come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità.»
Difficile per un sognatore come me sottrarsi a questo pezzo di poesia travestito da canzone.
Va bene, non è settembre… mica si può prendere tutto alla lettera. Siamo a gennaio, che è comunque un mese che arriva subito dopo le feste di Natale. E poi, uno avrà o no il diritto di avere delle perplessità che lo riguardano quando cavolo vuole lui. O no?
Lo stesso autore, scrisse altri pezzi che hanno colpito spesso la mia fantasia o la mia sensibilità. U pezzo come:
«se sono di umore nero allora scrivo, frugando nelle nostre miserie,
di solito ho da fare cose più serie, costruire su macerie o mantenermi vivo…»
Sembrerebbe avere pensato a me, quando scrisse questa strofa. Io, infatti, quando sono di umore nero o semplicemente vedo nero: «mi chiudo in casa e scrivo, e scrivendo mi consolo…» tanto per citare un’altra perla di saggezza dell’attempato cantautore fatta ad hoc per il sottoscritto. E così, eccomi che scrivo. A volte, ho l’impressione di essere ancora un ragazzino di dodici anni, intrappolato in questo corpo di adulto. Sento che mi appartengono ancora i ricordi e le emozioni di quell’epoca felice, e mi sembra di vedermi com’ero allora, con i calzoncini corti, le ginocchia perennemente rovinate da una caduta o scivolata, spettinato e con un pallone da calcio sottobraccio. Mi rivedo sorridente, completamente ignaro del futuro che arriverà e delle preoccupazione che immancabilmente accompagneranno il diventare grande. Che bella quella età quando bastava un pallone un prato e qualche amichetto per provare a toccare il cielo con un dito.
Poi, con un crescendo quasi Wagneriano, arriveranno in sequenza: la scuola con i suoi “studia se non vorrai finire a fare il muratore… (perché i miei ce l’avessero così tanto con i muratori… boh).
Poi, un anno buttato a giocare alla guerra. Un anno che solo Dio sa perché riesce comunque ad illuminare gli occhi di un uomo che c’è stato. Dopo toccherà al lavoro, con tutte le sue contraddizioni, con l’egoismo sdrucciolo o l’invidia dei colleghi e qualche volta verso i colleghi, l’amore con gli alti e bassi che caratterizzano un rapporto di coppia. E ancora i figli con i loro problemi fisici, psicologici da risolvere, i tuoi cari che diventano prima vecchi e che poi ti lasciano con l’eredità di tenere vivo almeno il loro ricordo, l’unica possibilità di continuare ad essere presenti su questa terra. Le bollette da pagare, il timore di non farcela a poter garantire alla tua famiglia l’attuale tenore di vita. E ancora qualche primo acciacco che si tende a sottovalutare fino a quando la soglia del dolore è stata oltrepassata e non si resiste più. La paura di perdere il lavoro a causa di una crisi creata dall’ingordigia dell’uomo che per arricchire se stesso non si fa scrupoli a passare sopra ai diritti di altri. E mille e mille altri problemi che caratterizzano il nostro vivere quotidiano. Dove è finito quel ragazzino con il pallone? Forse si è perso nel correre verso una direzione che non gli riusciva di capire dove lo avrebbe portato. Forse non ha resistito alla delusione per non essere diventato da grande, il calciatore super che aveva sperato di diventare, o magari l’astronauta, oppure ancora un pilota di formula uno e si è rifiutato di crescere. Come un novello Peter Pan ha trovato la sua isola che non c’è e vi ci si è trasferito. Forse invece si è solo rassegnato a correggere al ribasso le proprie aspettative: invece di un calciatore della nazionale si è accontentato di un lavoro dignitoso con il duplice scopo di imparare e di rendersi economicamente indipendente,
Si è accontentato di aver conosciuto una “non principessa azzurra” al posto della donna bionda con gli occhi azzurri con il viso da angelo, il corpo da angelo, dolce come un angelo, oppure della compagna di classe delle scuole medie. Quella seduta al primo banco della classe e che li provocava le prime pulsioni. Probabilmente si sarà accontentato di una automobile piccola e che consumi poco, invece della BMW o Porsche che allora era certo avrebbe sicuramente comperato. Non si aspetta più di vincere un premio nobel per le letteratura, ma si accontenterebbe che qualcuno legga e commenti quello che scrive.
Se avesse saputo cosa lo aspettava, sicuramente non avrebbe avuto tutta quella fretta di crescere. Non avrebbe mai pensato o detto: «Quando finalmente sarò grande…»
Si, ma l’uomo. Beh, lui ci è arrivato digerendo qualche boccone amaro a volte, ce l’ha comunque fatta ed ha sempre avuto la forza per continuare. Anche quando ha visto il mondo crollargli addosso ha saputo trovare la forza per tirare avanti. Per provarci. Ha saputo ingoiare le pillole amare quando si è accorto che le sue speranze cominciavano a chiamarsi utopie, ha sicuramente apprezzato con gioia quello che la vita, che comunque sa anche essere generosa ha saputo donargli.
Certamente, quando vede la mattina sorgere il sole, non si emoziona più come un tempo. Ha ancora un cassetto nascosto con qualche sogno da realizzare, ma cerca di evitare di aprirlo per paura che anche questi possano scivolare fuori.
«Un giorno o l’altro lo aprirò quel cassetto e proverò…» si racconta da solo a volte, sapendo di mentire anche a se stesso.
Eppure, un sogno per quanto irrealizzabile questo uomo ce l’ha. Eccome se ce l’ha. Immagina di camminare per strada, di svoltare l’angolo e di trovarsi di fronte quel ragazzino spettinato, con le ginocchia sbucciate e con un pallone da calcio sottobraccio.
mercoledì 9 febbraio 2011
una sera
Dedicato alla mia lei ovunque si trovi
Una sera, una qualunque di quelle in cui la malinconia sembra pronta a prendere il sopravvento ed in cui la sensazione di chiuso è opprimente e ti rende impossibile rimanere in casa, avevo deciso di uscire e di fare una lunga camminata. Non una delle solite passeggiate di mezz’ora buone solo per ricordare ai muscoli che esistono e che hanno una funzione differente da quella di restare seduti o al massimo di muoversi per schiacciare i pedali della macchina. Quello che volevo era una camminata diversa che avrebbe dovuto servire a rigenerare la mente oltre che il corpo. Era stato allora, che mi ero ricordato del fiume, di quel posto con cui avevo condiviso gli anni migliori della mia infanzia e che, se avesse avuto un’anima, avrebbe potuto ricordare insieme con me dei momenti indimenticabili. Quei momenti in cui, bastava una canna da pesca, tanta passione e il sapere accontentarsi di quello che avevi e che i tuoi quindici anni potevano permetterti di avere per essere convinto di avere in tasca le chiavi segrete del mondo. Quante volte fino ad oggi ci avevo ripensato. Alla “curva” la grande ansa sul fiume che era diventata un luogo di culto, quasi sacro per via delle emozioni che mi aveva saputo dare e che avevo custodito segretamente fino ad oggi. Quante volte sono stato sul punto di andarci e poi, un po’ per la mancanza di tempo, un po’ per pigrizia o per mille altri motivi, non lo avevo mai fatto. Oggi però, nessun motivo avrebbe potuto distogliermi dalla mia intenzione di andarci.
È strano volere uscire per camminare e per prima cosa infilarsi in macchina, ma per una volta, soprattutto la sera tardi, quando il traffico è ormai decongestionato penso che si può fare. Del resto basta una mezz’oretta per raggiungere la mia “curva”.
Scendo dalla macchina nello stesso piazzale che allora attraversavo di corsa con le canne lo zaino e tutto il resto e mi avvio sul sentiero che porta al fiume. Non ho di sicuro lo stesso livello di adrenalina che avevo allora, quando mi aspettava una giornata intera di pesca, invece di questo strano amarcord, ma le sensazioni che provo sono più o meno le stesse: lo stesso profumo dell’aria, la stessa umidità, addirittura gli stessi fili d’erba al centro del sentiero che sono pronti a bagnarmi le scarpe. Poi finalmente il fiume, con il suo tipico odore di acqua, il sommesso rumore della corrente… quello che allora avevo etichettato come la voce del fiume. Nella fretta di partire ho dimenticato di portare con me una torcia elettrica, ma per fortuna la luce della luna piena mi agevola e rende praticabile il sentiero che costeggia il fiume.
Vedo da lontano la “curva” è illuminata dalla luce della notte che ne mette in risalto la ghiaia chiara, e permette di distinguerla dai gorghi dell’acqua corrente. Dal bosco arrivano i versi di qualche uccello notturno. Magari si sta chiedendo che cosa ci fa, un intruso come me in un posto isolato come quello. Se me lo chiedesse in un idioma comprensibile, davvero farei fatica a dargli una risposta sensata.
Raggiungo la curva e mi siedo sulla ghiaia, proprio nello stesso posto che un tempo diventava la mia sede, dove depositavo lo zaino, la sacca con le canne e tutto il resto, e mi precipitavo a pescare.
Le uniche luci che riesco a vedere, sono quella sfavillante della luna e quelle tremolanti delle stelle. Non c’è alcun pescatore questa notte, non è la stagione giusta per buttare l’amo e sperare di prendere qualcosa. Non riesco a rimanere seduto: mi alzo e comincio a risalire il sentiero andando contro la corrente del fiume. Ci sono almeno una decina di chilometri da percorrere, per giungere al primo centro abitato. La gente non ama vivere vicino ad un fiume. Chissà perché.
È lì, in mezzo al nulla, che sento un lamento. Al momento la cosa mi spaventa: la luce della luna mi permette di vedere abbastanza bene, ma è comunque buio. E Dio solo sa perché, il buio mette sempre un po’ di apprensione. Mi guardo intorno più volte, chiedendomi se sono sicuro di avere udito quel gemito sommesso. Non vedo nulla, nulla che possa confermare che il mio udito abbia percepito alcun suono.
Mi calmo e decido di riprendere a camminare, sicuro di avere avuto un’allucinazione; “le traveggole” come mi piaceva dire da bambino. Ho il tempo di fare due passi e…
«Chi sei?»
Adesso il sangue mi si gela nelle vene. Sono certo di avere sentito quella voce. Le gambe chiedono subito l’autorizzazione al cervello per mettersi a correre e scappare, ma dal centro di comando tarda ad arrivare il lasciapassare. Dopotutto il tono di quella voce non era sembrato minaccioso, quindi potenzialmente non pericoloso. Le gambe inviano un secondo “may day” al cervello che però, ancora una volta decide di ignorare l’allarme ed anzi chiede esplicitamente di voltarsi per vedere a chi appartiene quella voce giunta alle spalle
“Ok! Va bene! Poi non venirci a dire che non ti avevamo avvertito…” minacciano le gambe.
“Silenzio! E giratevi, che qui comando io!” Ordina il centro di comando nella mia mente.
Dietro di me non vedo nulla. Non c’è nulla neanche al fianco.
«Chi c’è?» Chiedo con la voce un po’ tremolante.
«Sono io non temere!» È la risposta. La frase è chiarissima, anche se la voce è di sicuro strana. Addirittura mi riesce difficile capire se si tratta di un uomo o di una donna. Però, non sembra essere minacciosa, anzi sembra essere velata da una profonda tristezza.
«Tu chi? Dove sei?» Chiedo.
«Guarda in alto, verso la luna. Io sono lì.»
«Mi stai prendendo in giro vero? Vieni fuori!»
Sono sempre stato una persona molto razionale. Penso, che se mi vedesse qualcuno a parlare da solo in riva al fiume, risolverebbe velocemente ogni mio problema ed ansia rinchiudendomi in una casa di cura. Una di quelle per la cura dell’igiene mentale: li chiamano così i manicomi oggi.
«Sono già fuori! Sono il cielo!»
«Si e io sono Cleopatra!» Butto lì io, restando al gioco sempre pronto a scappare non appena i burloni che mi stanno facendo questo giochetto decideranno di uscire allo scoperto.
«No davvero! Sono il cielo e tu chi sei?»
Non c’è nessuna vena ironica nella voce. Se si fosse trattato dello scherzo di qualche buontempone, sicuramente avrei sentito qualche risolino trattenuto a stento tra una parola e l’altra. Invece, l’unica sensazione che riesco a percepire è quella di una profonda tristezza. Così, decido di stare al gioco.
«Così tu sei il cielo… praticamente sei Dio?»
«No! Ti ho detto che sono il cielo. Sono tutto quello che vedi guardando in alto…»
«… è un po’ dura da mandare giù!» lo interrompo io cominciando a divertirmi nello stare al gioco.
«Eppure è così! Sono il possessore della luna di tutti i miliardi di stelle che vedi anche se…» la voce si bloccò in un singhiozzo.
«Provami che sei il cielo!» Ordino io interrompendolo. Ormai il gioco si è fatto interessante e vale la pena di divertirsi fino in fondo. Se a gestirlo fossero stati dei malintenzionati, avrebbero già provato ad aggredirmi. E poi… poi, in fondo alla mia pazzia sento che la cosa giusta da fare è dare retta a questa voce e permettere che ci sia un seguito.
«Cosa vuoi che faccia?»
È una serata freddina ma limpida, non c’è una nuvola neanche a pagarla a peso d’oro. Mi viene in mente di chiedergli di fare piovere. Poi mi fermo. Mi rendo conto che se lo facessi, il buontempone nascosto tra gli alberi ed i cespugli potrebbe sentirsi autorizzato a buttarmi un secchio di acqua addosso finendo a ridere come un matto. Scelgo qualcosa di più semplice.
«Dici di essere il padrone della luna. Ebbene, spegnila per una decina di secondi, così saprò che sei davvero tu.»
«Va bene!»
Miracolosamente compare nel cielo una nuvoletta che velocemente si piazza davanti alla luna togliendo la luce alla notte e contemporaneamente ogni alito di vitalità al mio corpo. Sono letteralmente pietrificato al buio, quando la voce mi chiede:
«Può bastare così?»
«Si!» Bisbiglio io, imponendo alla mia bocca di pronunciare quel monosillabo.
«Ora sei convinto?»
Riprendo piano piano a respirare. Sono stordito, ma ancora una volta la curiosità ha la meglio sulla razionalità e su tutto il resto.
«Perché vuoi parlare con me?» Chiedo con un filo di voce.
«Perché ti ho visto qua tutto solo, perché sento che dentro di te sei triste… perché sei triste?»
Gli racconto che non si tratta solo di tristezza, ma di semplice malinconia, d’insoddisfazione e di tutte quelle cose che a volte senza un motivo apparente non ci consentono di vivere serenamente la nostra vita. Lui mi lascia parlare senza mai interrompere ed allora mi ricordo della tristezza del tono della sua voce e non posso fare a meno di chiedergli:
«… e tu? Anche tu non mi sembri particolarmente allegro. Che cosa c’è che non va?»
«Sapessi… io sono il possessore di tutto quello che vedi. Della luna del sole e di tutte le stelle… però…»
Si blocca ancora sembrando sul punto di piangere ed io senza troppa sensibilità lo pungolo:
«Però?»
«… però tempo fa, una delle mie stelle, quella più luminosa la più bella tra tutte è sparita. Scomparsa, introvabile.»
«E dove è andata?»
«Non lo so! È per questo che con la luna in una notte limpida come questa sto cercando di ritrovarla, ma non ci riesco.»
«E perché pensi che sia scappata?» Chiedo subito io.
«Non lo so! Quello che so è solo che il suo posto è qui, nel cielo ad illuminare la sua parte di buio.»
Ora, il cielo sembra essere più arrabbiato che triste. Decido di indagare.
«Va bene, una stella è scappata, ma te ne restano miliardi. Perché te la prendi?»
«Proprio tu mi chiedi questo? Tu che hai tutto. Hai una famiglia, una casa, un lavoro e tante cose che altri possono solo sognare.»
«Ma… credo che tu non possa capire che…»
«Io non posso capire?! Sei tu che non puoi capire che sei una persona fortunata. Invece pensa a me, abbandonato da una delle mie stelle e per cosa: per lasciare la vita brillante nel cielo e tuffarsi in quella piena di tribolazioni sulla terra.»
«E’ una sua scelta. Magari era stanca di restare un punto luminoso nel cielo e…»
«E magari ha deciso di portare avanti una vita incolore sulla terra.»
«Si tratta della sua vita, e magari continuerà a brillare di luce propria anche sulla terra.»
Il cielo aspetta che io finisca di parlare, poi con educazione ma fermezza mi dice:
«Tu sei un semplice mortale. Non riesci ad apprezzare il bello che hai e vieni a dare lezioni me. Quando tu un giorno ti spegnerai, io sarò sempre qua, scintillante come sempre.»
Vorrei dirgli che scintillerebbe almeno con una stella in meno, ma la cattiveria non fa parte del mio bagaglio. E quella frase sarebbe a dir poco crudele. Mi limito a fissare la luna ed a chiedere:
«Ed allora?»
«E allora non vale più la pena di continuare a perdere il mio tempo con te. Ci sono ancora molte ore in questa notte e magari mi riuscirà a trovare quello che sto cercando.»
C’è più determinazione che tristezza adesso nella voce. Mi limito a dire:
«Ciao, allora. È stato comunque un piacere.»
«Ciao!» Risponde freddo il cielo congedandomi.
Giro le spalle alla luna e mi incammino. Adesso il centro di comando vorrebbe dare l’ordine alle gambe di correre. Non per scappare, ma giusto perché ho acquisito molta energia. O forse, solo per mettere più strada possibile tra me e quel luogo in cui ho “parlato con il cielo.”
Ma si può sfuggire al cielo? No, non credo sia possibile, però in ogni caso tu puoi stare tranquilla: anche se mi ha fatto un pochino di pena, non gli dirò mai di averti conosciuta e meno che mai gli dirò dove sei.
Una sera, una qualunque di quelle in cui la malinconia sembra pronta a prendere il sopravvento ed in cui la sensazione di chiuso è opprimente e ti rende impossibile rimanere in casa, avevo deciso di uscire e di fare una lunga camminata. Non una delle solite passeggiate di mezz’ora buone solo per ricordare ai muscoli che esistono e che hanno una funzione differente da quella di restare seduti o al massimo di muoversi per schiacciare i pedali della macchina. Quello che volevo era una camminata diversa che avrebbe dovuto servire a rigenerare la mente oltre che il corpo. Era stato allora, che mi ero ricordato del fiume, di quel posto con cui avevo condiviso gli anni migliori della mia infanzia e che, se avesse avuto un’anima, avrebbe potuto ricordare insieme con me dei momenti indimenticabili. Quei momenti in cui, bastava una canna da pesca, tanta passione e il sapere accontentarsi di quello che avevi e che i tuoi quindici anni potevano permetterti di avere per essere convinto di avere in tasca le chiavi segrete del mondo. Quante volte fino ad oggi ci avevo ripensato. Alla “curva” la grande ansa sul fiume che era diventata un luogo di culto, quasi sacro per via delle emozioni che mi aveva saputo dare e che avevo custodito segretamente fino ad oggi. Quante volte sono stato sul punto di andarci e poi, un po’ per la mancanza di tempo, un po’ per pigrizia o per mille altri motivi, non lo avevo mai fatto. Oggi però, nessun motivo avrebbe potuto distogliermi dalla mia intenzione di andarci.
È strano volere uscire per camminare e per prima cosa infilarsi in macchina, ma per una volta, soprattutto la sera tardi, quando il traffico è ormai decongestionato penso che si può fare. Del resto basta una mezz’oretta per raggiungere la mia “curva”.
Scendo dalla macchina nello stesso piazzale che allora attraversavo di corsa con le canne lo zaino e tutto il resto e mi avvio sul sentiero che porta al fiume. Non ho di sicuro lo stesso livello di adrenalina che avevo allora, quando mi aspettava una giornata intera di pesca, invece di questo strano amarcord, ma le sensazioni che provo sono più o meno le stesse: lo stesso profumo dell’aria, la stessa umidità, addirittura gli stessi fili d’erba al centro del sentiero che sono pronti a bagnarmi le scarpe. Poi finalmente il fiume, con il suo tipico odore di acqua, il sommesso rumore della corrente… quello che allora avevo etichettato come la voce del fiume. Nella fretta di partire ho dimenticato di portare con me una torcia elettrica, ma per fortuna la luce della luna piena mi agevola e rende praticabile il sentiero che costeggia il fiume.
Vedo da lontano la “curva” è illuminata dalla luce della notte che ne mette in risalto la ghiaia chiara, e permette di distinguerla dai gorghi dell’acqua corrente. Dal bosco arrivano i versi di qualche uccello notturno. Magari si sta chiedendo che cosa ci fa, un intruso come me in un posto isolato come quello. Se me lo chiedesse in un idioma comprensibile, davvero farei fatica a dargli una risposta sensata.
Raggiungo la curva e mi siedo sulla ghiaia, proprio nello stesso posto che un tempo diventava la mia sede, dove depositavo lo zaino, la sacca con le canne e tutto il resto, e mi precipitavo a pescare.
Le uniche luci che riesco a vedere, sono quella sfavillante della luna e quelle tremolanti delle stelle. Non c’è alcun pescatore questa notte, non è la stagione giusta per buttare l’amo e sperare di prendere qualcosa. Non riesco a rimanere seduto: mi alzo e comincio a risalire il sentiero andando contro la corrente del fiume. Ci sono almeno una decina di chilometri da percorrere, per giungere al primo centro abitato. La gente non ama vivere vicino ad un fiume. Chissà perché.
È lì, in mezzo al nulla, che sento un lamento. Al momento la cosa mi spaventa: la luce della luna mi permette di vedere abbastanza bene, ma è comunque buio. E Dio solo sa perché, il buio mette sempre un po’ di apprensione. Mi guardo intorno più volte, chiedendomi se sono sicuro di avere udito quel gemito sommesso. Non vedo nulla, nulla che possa confermare che il mio udito abbia percepito alcun suono.
Mi calmo e decido di riprendere a camminare, sicuro di avere avuto un’allucinazione; “le traveggole” come mi piaceva dire da bambino. Ho il tempo di fare due passi e…
«Chi sei?»
Adesso il sangue mi si gela nelle vene. Sono certo di avere sentito quella voce. Le gambe chiedono subito l’autorizzazione al cervello per mettersi a correre e scappare, ma dal centro di comando tarda ad arrivare il lasciapassare. Dopotutto il tono di quella voce non era sembrato minaccioso, quindi potenzialmente non pericoloso. Le gambe inviano un secondo “may day” al cervello che però, ancora una volta decide di ignorare l’allarme ed anzi chiede esplicitamente di voltarsi per vedere a chi appartiene quella voce giunta alle spalle
“Ok! Va bene! Poi non venirci a dire che non ti avevamo avvertito…” minacciano le gambe.
“Silenzio! E giratevi, che qui comando io!” Ordina il centro di comando nella mia mente.
Dietro di me non vedo nulla. Non c’è nulla neanche al fianco.
«Chi c’è?» Chiedo con la voce un po’ tremolante.
«Sono io non temere!» È la risposta. La frase è chiarissima, anche se la voce è di sicuro strana. Addirittura mi riesce difficile capire se si tratta di un uomo o di una donna. Però, non sembra essere minacciosa, anzi sembra essere velata da una profonda tristezza.
«Tu chi? Dove sei?» Chiedo.
«Guarda in alto, verso la luna. Io sono lì.»
«Mi stai prendendo in giro vero? Vieni fuori!»
Sono sempre stato una persona molto razionale. Penso, che se mi vedesse qualcuno a parlare da solo in riva al fiume, risolverebbe velocemente ogni mio problema ed ansia rinchiudendomi in una casa di cura. Una di quelle per la cura dell’igiene mentale: li chiamano così i manicomi oggi.
«Sono già fuori! Sono il cielo!»
«Si e io sono Cleopatra!» Butto lì io, restando al gioco sempre pronto a scappare non appena i burloni che mi stanno facendo questo giochetto decideranno di uscire allo scoperto.
«No davvero! Sono il cielo e tu chi sei?»
Non c’è nessuna vena ironica nella voce. Se si fosse trattato dello scherzo di qualche buontempone, sicuramente avrei sentito qualche risolino trattenuto a stento tra una parola e l’altra. Invece, l’unica sensazione che riesco a percepire è quella di una profonda tristezza. Così, decido di stare al gioco.
«Così tu sei il cielo… praticamente sei Dio?»
«No! Ti ho detto che sono il cielo. Sono tutto quello che vedi guardando in alto…»
«… è un po’ dura da mandare giù!» lo interrompo io cominciando a divertirmi nello stare al gioco.
«Eppure è così! Sono il possessore della luna di tutti i miliardi di stelle che vedi anche se…» la voce si bloccò in un singhiozzo.
«Provami che sei il cielo!» Ordino io interrompendolo. Ormai il gioco si è fatto interessante e vale la pena di divertirsi fino in fondo. Se a gestirlo fossero stati dei malintenzionati, avrebbero già provato ad aggredirmi. E poi… poi, in fondo alla mia pazzia sento che la cosa giusta da fare è dare retta a questa voce e permettere che ci sia un seguito.
«Cosa vuoi che faccia?»
È una serata freddina ma limpida, non c’è una nuvola neanche a pagarla a peso d’oro. Mi viene in mente di chiedergli di fare piovere. Poi mi fermo. Mi rendo conto che se lo facessi, il buontempone nascosto tra gli alberi ed i cespugli potrebbe sentirsi autorizzato a buttarmi un secchio di acqua addosso finendo a ridere come un matto. Scelgo qualcosa di più semplice.
«Dici di essere il padrone della luna. Ebbene, spegnila per una decina di secondi, così saprò che sei davvero tu.»
«Va bene!»
Miracolosamente compare nel cielo una nuvoletta che velocemente si piazza davanti alla luna togliendo la luce alla notte e contemporaneamente ogni alito di vitalità al mio corpo. Sono letteralmente pietrificato al buio, quando la voce mi chiede:
«Può bastare così?»
«Si!» Bisbiglio io, imponendo alla mia bocca di pronunciare quel monosillabo.
«Ora sei convinto?»
Riprendo piano piano a respirare. Sono stordito, ma ancora una volta la curiosità ha la meglio sulla razionalità e su tutto il resto.
«Perché vuoi parlare con me?» Chiedo con un filo di voce.
«Perché ti ho visto qua tutto solo, perché sento che dentro di te sei triste… perché sei triste?»
Gli racconto che non si tratta solo di tristezza, ma di semplice malinconia, d’insoddisfazione e di tutte quelle cose che a volte senza un motivo apparente non ci consentono di vivere serenamente la nostra vita. Lui mi lascia parlare senza mai interrompere ed allora mi ricordo della tristezza del tono della sua voce e non posso fare a meno di chiedergli:
«… e tu? Anche tu non mi sembri particolarmente allegro. Che cosa c’è che non va?»
«Sapessi… io sono il possessore di tutto quello che vedi. Della luna del sole e di tutte le stelle… però…»
Si blocca ancora sembrando sul punto di piangere ed io senza troppa sensibilità lo pungolo:
«Però?»
«… però tempo fa, una delle mie stelle, quella più luminosa la più bella tra tutte è sparita. Scomparsa, introvabile.»
«E dove è andata?»
«Non lo so! È per questo che con la luna in una notte limpida come questa sto cercando di ritrovarla, ma non ci riesco.»
«E perché pensi che sia scappata?» Chiedo subito io.
«Non lo so! Quello che so è solo che il suo posto è qui, nel cielo ad illuminare la sua parte di buio.»
Ora, il cielo sembra essere più arrabbiato che triste. Decido di indagare.
«Va bene, una stella è scappata, ma te ne restano miliardi. Perché te la prendi?»
«Proprio tu mi chiedi questo? Tu che hai tutto. Hai una famiglia, una casa, un lavoro e tante cose che altri possono solo sognare.»
«Ma… credo che tu non possa capire che…»
«Io non posso capire?! Sei tu che non puoi capire che sei una persona fortunata. Invece pensa a me, abbandonato da una delle mie stelle e per cosa: per lasciare la vita brillante nel cielo e tuffarsi in quella piena di tribolazioni sulla terra.»
«E’ una sua scelta. Magari era stanca di restare un punto luminoso nel cielo e…»
«E magari ha deciso di portare avanti una vita incolore sulla terra.»
«Si tratta della sua vita, e magari continuerà a brillare di luce propria anche sulla terra.»
Il cielo aspetta che io finisca di parlare, poi con educazione ma fermezza mi dice:
«Tu sei un semplice mortale. Non riesci ad apprezzare il bello che hai e vieni a dare lezioni me. Quando tu un giorno ti spegnerai, io sarò sempre qua, scintillante come sempre.»
Vorrei dirgli che scintillerebbe almeno con una stella in meno, ma la cattiveria non fa parte del mio bagaglio. E quella frase sarebbe a dir poco crudele. Mi limito a fissare la luna ed a chiedere:
«Ed allora?»
«E allora non vale più la pena di continuare a perdere il mio tempo con te. Ci sono ancora molte ore in questa notte e magari mi riuscirà a trovare quello che sto cercando.»
C’è più determinazione che tristezza adesso nella voce. Mi limito a dire:
«Ciao, allora. È stato comunque un piacere.»
«Ciao!» Risponde freddo il cielo congedandomi.
Giro le spalle alla luna e mi incammino. Adesso il centro di comando vorrebbe dare l’ordine alle gambe di correre. Non per scappare, ma giusto perché ho acquisito molta energia. O forse, solo per mettere più strada possibile tra me e quel luogo in cui ho “parlato con il cielo.”
Ma si può sfuggire al cielo? No, non credo sia possibile, però in ogni caso tu puoi stare tranquilla: anche se mi ha fatto un pochino di pena, non gli dirò mai di averti conosciuta e meno che mai gli dirò dove sei.
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