lunedì 27 settembre 2010

i diari di nemesnep 2

la partenza

La partenza.
Si è dormito poco. Il venerdì Santo, che per noi a differenza dei cattolici cade sul calendario non due giorni prima della Pasqua, ma ogni quinto giorno della settimana, è stato onorato anche questa volta. Per molti, certamente più religiosi o quanto meno legati a vecchie tradizioni, il venerdì rappresenta un giorno di magro. Da questo è nato il detto “Venerdì… pesce!» Per noi, di sicuro meno pii e meno profondi, vale il detto «Venerdì carte!»
Per questo motivo si è giocato anche il giorno prima della partenza. Un po’ meno del solito, non lo nego, ma almeno fino alla mezzanotte, si è rimasti alla “ultima spiaggia” a giocare con gli amici e si è timbrata la presenza.
Qualche ora prima ci si era dedicati agli ultimi preparativi: la spesa al gigante, per comprare i generi di prima necessità. Quelli da portare con noi per prevenire qualsiasi disguido. Anche in caso di negozi chiusi o di sciopero dei ristoranti, almeno qualche piatto di pasta e qualche birra, ci sarebbe stata. Abbiamo recuperato la macchina del Cagno dal concessionario che l’ha tagliandata e resa abile arruolata per il viaggio, quindi abbiamo cominciato a mettere le valige nel bagagliaio.
Ernesto che Guevara, quando decise con il fido amico Granado, di affrontare un avventuroso viaggio lungo l’America Latina, aveva soprannominato il suo mezzo di trasporto: “La poderosa.”
Il viaggio, reso celebre dai suoi “diari della motocicletta,” si sarebbe snodato tra Argentina, Cile, Perù e Venezuela per una lunghezza di 13000 Km. La “poderosa” altro non era che una vecchia Norton 500 che, come ci raccontano i diari del Che esalò il suo ultimo respiro prima di arrivare alla meta. Ok, non mi sento il Che, non intendo percorrere 13.000 km, ma lasciatemi almeno chiamare “la poderosa” l’Alfa Romeo che ci accompagnerà in quest’avventura. Speriamo che nel suo spirito d’emulazione, la nostra auto non decida di lasciarci a piedi in terra magiara.

Mi alzo prima che la sveglia faccia il suo dovere. In un attimo sono pronto. Mi metto in tasca gli occhiali da sole: non voglio rischiare di dimenticarmeli. Raccolgo lo zainetto con le ultime cose ed esco sul balcone. Quasi subito, all’inizio della via prende forma la sagoma familiare della poderosa.
Il suo colore argenteo si confonde un po’ con il grigio del cielo. Ma sono le sei ed un quarto ed a quest’ora il cielo è sempre di questo colore… e poi, di cosa lamentarsi se il Cagno è in perfetto orario. Devo essere davvero molto stanco, anche perché non ho dormito quasi nulla, infatti, non ho correlato subito le condizioni meteorologiche non esaltanti con l’inattesa puntualità dell’amico. C’è un detto inglese che definisce la mia condizione “too much bed without sleeping enough.” Ovviamente gli inglesi lo usano quando uno non ha dormito abbastanza, perché ha avuto altro da fare tra le lenzuola. Ma non è proprio il mio caso. Sono rimasto sdraiato, ma non ho dormito e basta.
Il tempo fuori è quello che è, ma il morale è alto. Ci vuole ben altro per scalfire la corazza di buon umore che ci protegge. Mentre viaggiamo verso la nostra destinazione, inizia la sequenza di dischi portati apposta per il viaggio, così i vari Celentano, Dik Dik, Camaleonti & Co. ci accompagnano alternandosi a rallegrare l’abitacolo della poderosa. Arriva anche il turno dei mitici Alunni del Sole con la loro Liù, e con il ritornello rivisitato in: “Liù ma perché non ce la dai più, brutta troia che sei tu.” E chi ci ammazza a noi?!
Qualcuno avanza la necessità di dover fare una sosta breve per andare in bagno, ma Rosino è abbastanza categorico al riguardo:
«Prima passiamo Venezia. Poi potremo fare una sosta.»
Non ha tutti i torti. Tutti ci hanno raccomandato di partire presto, perché al casello di Mestre sicuramente ci aspetterà una coda di almeno due tre chilometri, e noi non vorremmo fare la fine di quegli sventurati cinesi bloccati nel traffico. Il telegiornale ha trasmesso le immagini agghiaccianti di un’autostrada cinese, bloccata da una coda di almeno cento chilometri. Nel servizio auspicavano che ci sarebbero voluti circa un paio di mesi prima di sbloccare la situazione e di permettere agli sfortunati di ritornare a casa. Non abbiamo così tanto tempo a disposizione.
Quando arriviamo all’uscita di San Donà del Piave, viene un primo dubbio che poi guardando tra le destinazioni Jesolo diviene certezza: non un chilometro di coda, abbiamo passato già Venezia e soprattutto niente casello di Mestre. Potenza delle nuove autostrade e del governo (non l’attuale, quello è impegnato a cercare di varare leggi pro premier, ma se risolveranno anche i problemi sulle tangenziali di Milano, credo che potrei votare per loro.
Il pipì stop avviene dopo Trieste. Io ed Eros approfittiamo della sosta per munirci di una cartina dell’Ungheria e per comperare il kit di pronto soccorso che sembrerebbe essere obbligatorio per chi ha intenzione di guidare in terra magiara. Non abbiamo dimenticato, da buoni previdenti, neppure la “vignetta” necessaria per viaggiare in autostrada.
Varchiamo il confine con la Slovenia. Che differenza con gli anni in cui facevo lo stesso per lavoro e per arrivare a Lubiana. Allora c’erano dei doganieri con i modi bruschi e scortesi che ti smontavano l’automobile e che volevano vedere di che colore portavi le mutande prima di farti passare. Ora, capiamo di essere in Slovenia solo perché ad un certo punto della strada compare il cartello dell’UE con tutte le stelline e con la sigla SLO al centro. Beh, sono passati quasi venti anni e questa è la potenza dell’Europa Unita. In compenso noto con dispiacere che mentre allora il carburante costava circa la metà rispetto all’Italia, adesso è addirittura leggermente più caro.
Il grigio del cielo adesso è virato su un più preoccupante plumbeo e qualche goccia… beh, un po’ più di qualche goccia, diciamo qualche miliardo di gocce s’infrange sul parabrezza. Questo però, non intacca la nostra corazza di buon umore. Qualche chilometro dopo Lubiana anzi, quando notiamo che nella corsia opposta c’è una coda spaventosa, riusciamo ad ironizzare sui tempi di percorrenza di quei poveri sfigati, costretti a procedere a passo d’uomo mentre noi camminiamo spediti verso la nostra meta.
La signorina del navigatore, nostra compagna d’avventura, ci raccomanda di proseguire diritti. Sui foglio stampati con l’itinerario estrapolato dalle mappe di google però, c’è scritto di prenderci una pausa. Prendiamo in parola il consiglio e ci fermiamo per mangiare. Ci si ferma in un autogrill sloveno. Uno di quelli con la A maiuscola, uno di quelli dove puoi trovare tutto, persino il pane. Non ci sono pasta e lasagne, ma stoicamente Rosino, incurante del fatto che si possono gustare solo delle specialità teutoniche si butta su una pietanza locale. Le salsicce con i crauti sono mangiabili, non eccezionali di sicuro ma di sicuro commestibili.
Breve pausa nel parcheggio, dove il freddo e l’acqua non ci fanno mancare la loro presenza. Ma a noi che ci frega? Mancano ancora più di cento chilometri a Nemesnep, e poi questa è ancora Slovenia: fredda e triste, non vorrai mica paragonarla con l’Ungheria ed i trentuno gradi di Budapest.
Tutti in macchina si riparte. La signorina del navigatore, evidentemente incazzata perché non è stata invitata a mangiare, ma anche perché nessuno le ha portato nulla dal bar dell’autogrill pensa bene di concedersi una piccola vendetta. Quando giungiamo a Maribor, anziché farci proseguire sull’autostrada “della pioggia” (del sole neanche a parlarne), come la logica avrebbe voluto, pensa bene di farci fare un’escursione per le vie ed i semafori della periferia. Ci fa perdere una ventina di minuti per fare uno strano percorso tra rotonde e semaforo per riprendere poco più avanti la stessa autostrada. In pratica, invece che lasciarci continuare sulla retta via, ci confonde le idee per farci rimettere in carreggiata circa un chilometro dopo.
«Almeno abbiamo visto Maribor!» Commentiamo. È proprio vero, quando l’ottimismo viaggia al tuo fianco anche un cielo nero, può sembrare limpido e sereno.
L’ottimismo, comincia a vacillare qualche tempo dopo. Complice un po’ di stanchezza, un po’ il maltempo che non ci ha regalato un solo raggio di sole in più di settecento chilometri si comincia a ridere di meno. Sappiamo che Nemesnep è un paesino un poco isolato, ma qua, adesso che ci stiamo avvicinando sembra di stare attraversando la Foresta Nera.
Rosino con un'abile mossa gioca la carta Pupo, inserendo nell’autoradio un disco della Rock Star Italiana, ed, infatti, “gelato al cioccolato” e “Firenze Santa Maria Novella risuonano liete nel nostro abitacolo. Lo spirito però non è più lo stesso.
Definire i paesi dell’alta Slovenia tristi non è esatto. Infatti, a tutti gli effetti, questi non sembrano neppure esistere. È come se Dio, dopo una cena avesse deciso di scuotere la tovaglia sulla terra, e le briciole di pane che sono cadute si siano trasformate in case. Una qua, una più in là e l’altra in ordine sparso ancora più lontano. È sabato pomeriggio: dalle nostre parti si fatica a trovare un parcheggio per la macchina… qua al contrario, è senza dubbio più difficile trovare una macchina da parcheggiare. Manca poco a Dubrovnik. No, tranquilli, non ha nulla a che fare con la Dubrovnik sul mare, perla della Croazia famosissima per le sue mura di cinta costruite dalle sapienti mani dei veneziani. Qua siamo in Slovenia ed il paese omonimo è lo stesso segnalato sulla cartina come una cittadina di tutto rispetto. Ne abbiamo parlato e dedotto che Dubrovnik è una valida alternativa a Nemesnep, qualora quest’ultima si dovesse rivelare poco vivace. Ristoranti, negozi e locali notturni lì non mancheranno di certo. Infatti, subito dopo avere oltrepassato il cartello con il nome dell’amena località, incrociamo un paio di auto e si vedono finalmente alcune case ravvicinate tra loro. Di gente però, neppure l’ombra. Proseguendo troviamo una casa rurale sulla sinistra, dove nel giardino riusciamo a scorgere alcune simpatiche pecorelle… di plastica ed un paio di cucce per cani desolatamente vuote. Più avanti nel centro del centro… disabitato troviamo un succedaneo di piazza con tanto di chiesa e tre quattro case dispostele intorno. Credo che il nostro amico Stephen King avrebbe potuto trarre chissà quale ispirazione se fosse stato con noi sulla macchina. Magari avrebbe potuto scrivere un “desperation 2 la vendetta” oppure “il paese degli zombi invisibili.”
Proseguendo nel deserto edificato, sotto l’algida direzione della nostra guida navigatore ci approssimiamo a lasciare la piccola metropoli slovena. Proseguiamo per Kobijle, l’ultimo paese prima di sconfinare in terra magiara. Troviamo ancora qualche casetta isolata e un trattore arrugginito, lasciato a trascorrere la sua meritata pensione, in balia degli agenti atmosferici, ed altre cucce rigorosamente vuote ed abbandonate.



«Oh possiamo dire che non c’è in giro neanche un cane.» Sbotta qualcuno.
Io azzardo una teoria secondo la quale, i cani mancano in quanto morti suicidi. I poveretti afflitti da tristezza e depressione si sono buttati uno alla volta sotto le ruote delle macchine che talvolta hanno la malaugurata idea di addentrarsi in questi luoghi dimenticati da Dio. Metto in stato di allerta, infatti, il nostro autista pregandolo di moltiplicare la sua prudenza ed attenzione nel percorrere queste strade. Non vorrei che fosse rimasto qualche ultimo disperato aspirante suicida canino.
Un cartello con la scritta “CUSTOM Km 1” ci avvisa che il confine e la dogana sono ormai ad un passo. Questa visione rallegra un po’ l’ambiente: primo perché Nemesnep ed in particolare l’Abbazia Country Club sorgono subito dopo il confine e quindi vuole dire che ci siamo. Secondo, dopo un viaggio praticamente solitario, l’idea di poter incontrare qualcuno che ci parla, sia pure un doganiere magiaro non fa completamente schifo. Tanto, se anche volessero controllare documenti e auto, noi sappiamo di essere in regola e di non avere scheletri nel nostro armadio. Siamo puliti come angeli e siamo anche in perfetto orario sulla tabella di marcia, quindi, che controllino pure.

(la linea gialla segna il confine tra Ungheria e Slovenia. Le prime case sulla sinistra della strada son la nostra meta)

Arriviamo alla dogana. Almeno sarebbe meglio scrivere arriviamo dove un tempo c’era una dogana. Adesso ci sono una costruzione fatiscente sulla sinistra, una tettoia arrugginita e dall’aspetto pericolante. Niente guardia di finanza, niente militari, neppure un residuato di quello che fu il glorioso impero austro ungarico… c’è solo un cartello blu con le stelline gialle ad avvertirci che siamo arrivati in Ungheria. Così non vale! È troppo facile così.
Guardo i miei compagni di avventura. Non c’è più nessun sorriso sui loro volti che sembrano abbastanza stanchi e delusi. L’autista in particolare, probabilmente provato dal lungo viaggio, sembra il più depresso del gruppo. Vedendo intorno a se solo alberi e niente più si lascia andare ad una profezia:
«Che posto! Adesso manca solo che si metta a piovere quando dobbiamo scaricare la macchina.»
Ha, infatti, smesso di piovere da quando ci siamo lasciati alle spalle Maribor, e anche se il tempo è ben lungi dall’essere migliorato almeno non dobbiamo usare il tergicristallo da almeno tre quarti d’ora. Della serie basta chiedere per essere esauditi, non appena scorgiamo sulla sinistra il cartello che indica la nostra agognata meta, uno scroscio d'acqua colpisce il parabrezza. Quando arriviamo nel parcheggio del nostro agriturismo, piove a secchiate. Daniele, ferma la Poderosa vicino al deposito delle biciclette, quindi scendiamo e corriamo sotto la sua tettoia per ripararci.


Altro che T-shirt e costumi da bagno. Immediatamente dal baule della macchina saltano fuori maglioni, giubbetti ed ombrelli.
L’Abbazia Country Club, sarà anche ubicata in un posto che definire, scusate la volgarità, nel buco del culo del mondo è un’esagerazione, per difetto, ma in ogni caso conserva molto fascino. C’è una bella piscina, delle sedie a sdraio disposte per catturare il sole, casette in stile molto graziose e tanto, ma proprio tanto verde. Girando intorno al piccolo deposito di bici, scorgo due cose molto importanti: un bagno dove poter finalmente dare libero sfogo ad uno dei più elementari stimoli. Che volete, l’età è ormai quella che è e freddo e pioggia non hanno fatto altro che acuire le mie necessità fisiologiche. Trovo poi, appollaiato su di una pila di lettini da spiaggia messi al riparo dalla pioggia, un bellissimo gatto nero mi sta osservando curioso. Il primo essere vivente non vegetale visto dall’ingresso in Ungheria. Questi si lascia teneramente accarezzare guardandomi con il sorriso sotto i baffi. Mentre lo accarezzo gli parlo e gli confesso che potremmo quasi consideraci parenti, visto che con noi c’è Eros il gran visir di tutti i Gatti. Per tutta risposta il micio si alza in piedi, si stiracchia, solleva la coda rispondendo alle mie effusioni e poi con uno scatto se ne va.
Nella reception del centro un serio impiegato dall’inglese improbabile ci spiega qualcosa, poi finalmente ci consegna le chiavi del nostro appartamento. La casa è bellina ma ovviamente è la più lontana possibile dal parcheggio. Ci si lava per portare bagagli, borse e suppellettili dal baule della poderosa alla nostra nuova dimora. Il gatto nero di poco prima torna a farsi vivo e non perde occasione per attraversarci la strada sul vialetto.
Da quest’istante, in perfetta coincidenza con l’inizio delle nostre brevi ferie, finisce la pace per gli altri clienti dell’agriturismo.
«Dove cazzo lo metto il dentifricio?» Grida uno al compagno ancora impegnato ad affrontare il diluvio sul vialetto, con le borse e le valigie ancora tra le mani.
«Avete visto le mie sigarette?» Ribadisce Daniele con la voce preoccupata di chi teme di averle perdute e di andare incontro ad una crisi di astinenza. Rimanere senza sigarette, nel vuoto più totale potrebbe essergli fatale.
«Le avrai in tasca le tue sigarette!» Gli rispondiamo sperando di avere indovinato.
Movimentando il grigio silenzio della bella località al confine tra Ungheria e Slovenia, ed a pochi chilometri dal bordo di Croazia ed Austria, prendiamo sempre più possesso di quella che per una settimana diverrà la nostra casa. Riempiamo subito tutti gli spazi disponibili con quello che abbiamo portato con noi. Accendiamo il frigorifero e mettiamo in fresco le nostre birre, la bibita che abbiamo comperato ed il latte. Eros poi, si preoccupa di stipare nella dispensa la pasta, i sughi pronti e tutte le altre cose. Degna particolare attenzione a riporre nel pensile della cucina l’olio d’oliva ed i due barattoli con ben segnato “Sale” e “Zucchero:” meglio non correre il rischio di scambiarli.
Ci accorgiamo di non aver pensato a comperare anche acqua da bere. Oddio, di acqua n’è caduta tanta dal cielo, sicuramente anche troppa, specie dopo la prima profezia del Cagno. In ogni caso, averne un paio di bottiglie in fresco non sarebbe male.
Ci vestiamo come meglio possiamo tenendo conto che la temperatura attuale è circa una ventina di gradi meno di quando siamo partiti, e torniamo alla poderosa. Usciamo dal parcheggio ed andiamo ad esplorare Nemesnep.
Nel mio immaginario, avevo pensato a Nemesnep come ad un tranquillo vecchio borgo di confine.
Uno di quelli dove il pavé di porfido o di pietra ha preso il posto dell’asfalto e dove la main street attraversa il centro abitato. Una strada principale con almeno un paio di panetterie, qualche negozietto di articoli alimentari una merceria ed almeno tre quattro bar dove poter sorseggiare una birra e magari mangiare qualcosa in compagnia della gente del posto. Di sicuro, i due panettieri avrebbero fatto di tutto per vincere la concorrenza dell’altro ed offrire agli avventori il pane più buono e croccante di tutta l’Ungheria. Avremmo poi potuto, la sera fare un giretto su questa via, cercando il negozietto più adatto a fare qualche buon acquisto. Mi piaceva pensare, che su questa via fossero ancora appesi i festoni per la festa del patrono avvenuta la settimana precedente, o le bandierine colorate ad avvisare l’imminente fiera con le bancarelle, le caramelle e tutto il resto. Oppure, che fossero lì a ricordare che la domenica seguente, ci sarebbe stata la festa della birra con ettolitri della bionda bevanda pronti solo da bere. Insomma, pensavo ad un’allegra contrada dove passare qualche ora.
È vero che guardando il paese tramite le immagini satellitari di Google heart e dando un’occhiata alle fotografie inserite in internet, tutte queste cose non le si erano viste. Ad essere sincero non avevo visto nulla di quello che mi sarei immaginato di trovare a Nemesnep. Ma tant’è! Io sono un sognatore. Sono uno che vede le cose a modo suo, almeno fino a quando la realtà lo mette con le spalle al muro. Infatti, quando arriviamo a quello che dovrebbe essere il centro del paese, o almeno quello che qualcuno riesce a considerare tale, cade ogni mia illusione. Non c’è il pavé, ma una strettissima striscia di asfalto dove due macchine contemporaneamente faticherebbero a transitare.
Non vedo negozi, nessuna bandierina colorata, solo una stranissima costruzione con una tettoia che ricorda un imbuto capovolto, che ricordo di avere visto tra le immagini su google.


Riconosco proseguendo la casa bianca con un camion militare fermo da qualche decennio probabilmente a fare da rifugio alle galline, il ponte tibetano realizzato con un vecchio tronco appoggiato sulle due sponde del ruscello. Poco altro. Troviamo tre persone intente a parlare tra loro nel “centro.”



Ci spostiamo nella periferia di quel “meedle of no where” e troviamo un edificio bianco già visto tra le foto su internet. Lo stesso che ieri avevamo pensato che potesse essere un ristorante, ma che in mancanza di scritte avrebbe potuto essere tranquillamente un ospizio, un ospedale per mucche o qualsiasi altra cosa. Anche la più impensabile. La foto, aveva la descrizione in magiaro strettissimo così avevamo potuto solo dedurre che avrebbe potuto essere un ristorante, ma che senso ha aprire un locale simile in una landa così desolata? L’istinto da viaggiatore non mi aveva tradito: infatti, girando intorno all’edificio abbiamo scorto la cucina all’aperto ed alcuni tavolini sotto il pergolato. C’era anche una lavagna con scritto il menù tipico del locale. Peccato davvero di non sapere decifrare la lingua ungherese. C’è anche un ampio parcheggio a testimoniare che la persona che ha deciso di aprire quest’attività in paese, sicuramente in fatto di ottimismo, potrebbe dare tre o quattro giri di pista al celeberrimo Gianni della Uni Euro. Sì! Proprio quello “dell’ottimismo è il sale della vita.”


Fuori da quello che ora sappiamo con certezza essere un ristorante, c’è una ragazzina. Probabilmente figlia dell’ottimista padrone del sito, ci da retta. Parla benissimo inglese e questa sarebbe già una rarità, ma la vera chicca è che la giovane è la prima persona cortese che incrociamo. Fino ad ora i pochi ungheresi che abbiamo avvicinato sono stati di uno scortese distacco da sfiorare l’antipatia.
Purtroppo cortese sì, ma non foriera di buone notizie. Ci dice subito che i nostri dubbi su Nemesnep sono più che giustificati: non c’è nessun negozio e se si eccettua il ristorante che abbiamo di fronte, e quello della casa madre all’Abbazia, non c’è altro. Ci indica poi la strada per raggiungere il paese vicino dove si può trovare un minimarket ed un bar.
Seguiamo le sue indicazioni e seguendo la strada asfaltata che sembra una ferita mal rimarginata tra gli alberi ed i boschi per qualche chilometro, prima di arrivare ad un nuovo nugolo di case. Qui scorgiamo subito il minimarket che però data l’ora, è già chiuso. Ci avviciniamo e scopriamo che lo sarà anche per tutto il giorno seguente.
«E come facciamo per le sigarette?» Mormora il Cagno, sul cui volto ricompare la crisi di astinenza imminente.
La tentazione di dirgli “cazzi tuoi!” è grande. Ma l’amicizia riesce a prevalere dove l’istinto animale a volte rischia di avere il sopravvento. Entriamo nel piccolo bar ed incontriamo un’altra giovane donna dietro il banco (gli ungheresi hanno capito tutto, fanno lavorare le donne). La ragazza parla solo magiaro e qualche parola di tedesco, perciò non è facile riuscire a farci capire ed a comprendere quello che cerca di spiegarci. A fatica ordiniamo da bere e riusciamo a farci portare anche qualche bottiglietta d’acqua minerale. Quando sempre con un grande sforzo le chiediamo che cosa c’è nelle vicinanze e se non c’è un posto dove poter comperare generi alimentari, la risposta è sempre Lenti.
«Dove comprare il pane?» risposta «Lenti»
«Dove le sigarette?» risposta «Lenti»
Comprendiamo dopo qualche minuto che Lenti è davvero una località nella zona. Lei tutta contenta per essere stata compresa ci spiega che in quella ridente città di frontiera, si può trovare di tutto; ristoranti, bar, super market, Dancing. Anche questa ragazza che all’inizio è sembrata un po’ sulle sue, dimostra poi di essere meno musona e ben disposta al dialogo. Nonostante la differenza di idioma. Ci fosse stato con noi Sandro, di sicuro non avrebbe esitato a chiederle di venire con noi in città per andare a ballare.
«Non c’è proprio un cazzo in questo posto!» esclama il Cagno, rimettendosi al volante della poderosa e svoltando a destra per seguire le istruzioni della barista. Eros intanto inserisce nel navigatore il nome della nuova località da raggiungere, e immediatamente la signorina del navigatore dall’aria contenta per essere stata riesumata dopo qualche ora ci consiglia di proseguire diritto sulla “noncihocapitouncazzo utca”. Tutte le strade che ci suggerisce per quanto poi risultino corrette sono quasi incomprensibili e seguite da un utca che dovrebbe stare per via.
Incrocio gli occhi nello specchietto con il guidatore e noto che oltre alla stanchezza c’è tanta delusione. Così cerco di infondergli un po’ di coraggio:
«dai che non c’è problema! Il tempo fa schifo, il posto è un po’ isolato…»
«Un po’ isolato?! C’è più compagnia nel Sahara!» m’interrompe lui.
«Lascia stare. Lì fa caldo e si suda troppo. È vero il destino coi sta giocando dei brutti scherzi, ma noi… noi possiamo contrattaccare. Abbiamo una bella carta da giocare Sandrone!»
Non ci giurerei, ma dopo questa mia affermazione mi è sembrato di vedergli i lucciconi agli occhi. Non so per l’emozione di avergli ricordato il fatto che il quarto amico ci raggiungerà, di lì a poco, o se per qualche altro motivo non legato all’emozione.
In ogni caso, pur non apparendo completamente convinto dalla mia affermazione, mette la freccia e svolta a destra come consigliato dalla saccente signorina che lo ha invitato a svoltare sulla “checazzoavràdetto utca.”
Lenti non è certo Milano, non è neppure Monza, né Vimercate. È anzi molto più simile a Peregallo che ad Arcore. Ma vale il detto che in un gruppo di ciechi, un orbo pure se miope, è un re.
Nella nostra casa non manca proprio nulla. C’è la televisione con tutti canali rigorosamente in lingua straniera, un frigorifero digitale (nel senso che ha due posizioni 0 temperatura quasi ambiente e 1 al limite della congelazione). C’è poi una bellissima piastra a due fuochi per cucinare. Due fuochi è davvero una parola grossa. Nel senso che le piastre sono elettriche e prive di ogni spiegazione sui comandi. Se è vero che non ci dovrebbe volere una laurea in astrofisica o in missilistica, per farla funzionare, è pur vero che, per fare bollire l’acqua per la pasta, non ci possono volere una quarantina di minuti. Rosino, sprezzante della sua fama di chef appena scalfita dal suo celeberrimo piatti di spaghetti alla bottarga e zucchero, prende in mano la situazione. La critica si è un po’ accanita su di lui per quell’esperimento non andato completamente a buon segno, ma in ogni maniera i semplici rigatoni alla bolognese preparati si possono tranquillamente ingerire senza rischi collaterali. Ringraziamo la Star per i suoi sughi pronti che ha reso più semplice la realizzazione.
Dopo cena facciamo un breve sopralluogo nell’Abbazia. Non è davvero male adesso che non piove più. Cerco di convincere il Cagno a non essere così negativo, perché il posto che è sembrato bello con la pioggia chissà come dovrà essere alla luce del sole. Vediamo poi che le case che nel pomeriggio erano quasi completamente vuote si sono riempite: c’è il pienone all’Abbazia Country Club.
«Chissà, domani ci converrebbe svegliarci presto o rischiamo di non trovare più una sdraio vicino alla piscina.»
Dopo la mia frase, non capisco perché, lui si è allontanato, ed è rientrato in casa. Rimango da solo e mi avvicino alle scuderie. I cavalli mi hanno sempre affascinato. C’è un cartello con le solite scritte incomprensibili, ma in fondo leggo una cosa che non mi piace. Weight limit 85 kg. Comprendo che il peso massimo consentito per cavalcare gli equini è 85 chili. Faccio un attimo mente locare poi mormoro tra me, scuotendo lentamente la testa in segno di disapprovazione:
«Cazzo sono appena appena fuori.» Quindi niente giretto a cavallo. Vabbè, che sarà mai? Mi avvicino alle stalle e vedo il primo esemplare che sta mangiando la sua razione di fieno con la testa chinata. Non mi degna di uno sguardo, ma muove nervosamente la coda. Il secondo invece è molto più disponibile, anzi azzarda pure un sorriso equino che mette in mostra la sua possente dentatura. Ha le labbra arricciate all’indietro in una smorfia che ricorda quella di un delfino. Lo trovo così simpatico che mi avvicino per accarezzarlo, quando sono a circa un metro da lui un sesto senso mi suggerisce di allontanarmi. L’animale vomita per terra. Evidentemente oltre a medium, mamme, ed a certi play boy, anche gli sfigati possiedono un sesto senso. Non avevo mai visto un cavallo vomitare, anzi qualcuno mi ha anche assicurato che un cavallo non può vomitare, e che lo fa solo se sta morendo. A me sembra in perfetta forma, con gli occhietti da pazzo belli lucidi, ma giuro che a me è successo di vederlo rimettere.


(Vomitino, il cavallo fantasma)

In ogni caso, non mi sembra un gesto di buon auspicio e decido di rincasare anch’io. Prima di rientrare noto che sulla seggiola davanti alla porta d’ingresso, ha preso posto il gatto nero. Ha scelto una casa a caso, per omaggiarla della sua presenza.
Il Cagno ha indosso un bel pigiamo blu che lo rende addirittura elegante, Rosino invece ha indosso un completo nero: canottiera e boxer un po’ stile Freddy Mercury. È un po’ inquietante doversi coricare nel lettone matrimoniale con lui in quel completo, ma ho anche io il mio asso nella manica: un pigiama con stampato sul petto, lo stemma dell’Inter. Per lui questo logo ha lo stesso potere che l’aglio ha per il più incallito dei vampiri.
La notte scorre via tranquilla… per me che ho dormito mentre il mio russare sembra (ne sono certo) ha condizionato non poco il loro sonno.

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