Quattro salti nella storia:
Il periodo di maggiori difficoltà per l’evoluzione del gioco fu durante l’Impero Romano. I romani non disprezzavano il nobile gioco anche se non tutti parevano in grado di parteciparvi. Nerone ad esempio aveva provato ad organizzare delle partite, non mancando però di inviare alle murene o ai leoni chiunque si permettesse di batterlo o meno che mai, di farlo perdere.
Seneca, che come vedremo è stato importante nella storia del gioco, ne fece le spese, dopo aver seccato l’imperatore con l’ostinata mania di mettergli la briscolina davanti quando questi chiamava. Di fronte all’ennesimo due di briscola giocato prima di lui, con il chiaro intento di metterlo in difficoltà fu esortato dal crudele Nerone ad abbandonare il tavolo e soprattutto a togliersi la vita.
Tacito, ci racconta la dignità con la quale il consigliere dopo essersi alzato dal tavolo abbia accettato la decisione del grande capo. Prima di recidersi le vene, volle lasciare un singolare testamento:
«A te che t’ingegni ogni volta, per cercare nuove soluzioni o trucchi per trarre profitto dalla tua sapienza e capacità, lascio in dono uno dei beni migliori che mi rimangono. Ricorda sempre: l’importanza non sta solo nella grandezza e nella potenza della tua briscola. Anche un umile due, giocato al momento giusto, può significare molto, come per me ha significato la differenza tra la vita e la morte.»
Solo anni più tardi, qualcuno riprenderà questi preziosi testi di Tacito e riuscirà traducendoli a comprendere l’importanza del testamento.
Tornando a bomba al periodo credo più difficile del gioco, è abbastanza intuitivo comprendere il motivo di tale imbarazzo.
Le famiglie erano finalmente diventate segni. Le mele erano state sostituite dai coppe, le margherite dalle daghe (diventeranno spade solo più avanti), le pere dai sesterzi (diventeranno denari o quadri molto dopo.) ed i sassi dai bastoni. Il problema però, erano semmai i numeri. Provate un po’ voi a giocare in questo modo:
«Chiamo il VII.»
«Io abbasso al IV»
«II!»
«II a LXII!»
«II a LXVII»
«Sei il solito braccinus II a LXVIII.»
«Non basta! LXIX.»
e via dicendo.
Per non parlare poi del conteggio dei punti e delle classifiche:
«Abbiamo vinto noi! XIIL più il carico di Julius fanno LIV, più il X di daghe del senatore Cagnus che vale IV fa LIX. Se ci aggiungi VIII di coppe che Sergius Appius ha fatto nella mano III, fanno LXI.»
«Comprati un nuovo Abacus. Voi avete fatto solo LVIII punti, abbiamo vinto noi..»
Oh, manco con un contabile si riusciva a cavare un ragno dal buco. Sarebbe finito sempre a randellate e a minacce di dare in pasto ai leoni gli avversari. Per fortuna il privilegio di mettere in pratica le minacce spettava al solo imperatore che in ogni modo, con cadenza quasi settimanale forniva molto materiale per il circo domenicale al Colosseo. La popolazione, ben presto cominciò ad orientare le proprie attenzioni più ai nuovi modelli di biga o alle procaci forme di qualche novella Messalina o Poppea, invece che esercitare la nobile arte del due.
Giulio Cesare invece, nonostante tutte le vicissitudini in cui si trovò invischiato e tutte le innumerevoli battaglie, non disdegnò mai di giocare qualche partita prima dei momenti che avrebbero fatto la storia dell’impero. Di carattere irruente e decisamente votato all’attacco, il grande Giulio amava osare e molto spesso vinceva partite incredibili grazie alle sue tattiche spregiudicate e ad una mentalità positiva. Si racconta che spesso, il condottiero abbia tratto buoni auspici dall’andamento delle partite decidendo di rinviare o affrettare una battaglia, confortato dal pronostico ricavato dall’esito della partita. Esattamente, nello stesso modo con cui un antico greco, avrebbe fatto recandosi ad interrogare un oracolo.
È arcinota, la partita forse più importante della sua vita, giocata alla vigilia della decisione di schierarsi contro la sua stessa Roma. Stava giocando una difficile partita sulla riva del Rubicone, quando stufato dalla continua provocazione di Pompeo Magno che si permetteva di rilanciare ogni sua chiamata, si bloccò. Ripose le carte sul tavolo e si alzò in piedi guardando al di là del fiume. Oltre il corso d’acqua c’era Roma con il suo controverso impero, alle sue spalle c’erano le sue carte con asso, tre, dieci e otto di daghe! Un segno del destino. Quel fetente di Pompeo Magno lo aveva portato fino al due a settantasette, e secondo lui stava bluffando. Sapeva però, che quella era una mano importante, se avesse vinto, avrebbe potuto riprendere a Roma il potere che nella città eterna, il governo corrotto stava cercando di togliergli. Era una decisione sofferta. Vincere però avrebbe voluto significare essere sicuro di oltrepassare il fiume e di iniziare e trionfare in una guerra civile.
«Andiamo là, dove i prodigi del cielo e l'ira dei miei nemici mi chiamano: Due a settantotto.»
«Annamo de là! ‘Ndo li prodigi der cielo e gl’infamoni me stanno a chiamà! Du a settantotto.»Tale Caius Simplicio, addetto alle pubbliche relazioni del condottiero, un po’ duro d’orecchie e soprattutto abbastanza stronzo, riferì nel suo rapporto di avere udito specificatamente “il dado è tratto!” invece di quel “due e settantotto.” Che cazzo volesse dire “il dado è tratto,” non fu mai in grado di spiegarlo, ma in ogni caso dopo la consegna del rapporto e del diario di viaggio, quella rimase la frase ufficialmente pronunciata. Questo, nonostante esaminando il labiale con la supermoviola del dottor Aldo Biscardus, si era arrivati alla verità.
«Guesto è un vero sgub. Abbiamo le immagini in esclusiva della frase pronunciata da Giulio Cesare al momento di attraversare il Rubbicone. Vogliamo usare guesto sgub come prova televisiva, per i signori designatori. Vogliamo la moviola in gampo e Robberto Baggio in nazionale.»
L’interessato, dopo aver letto l’articolo sulla gazzetta dello sport ed avere avuto conferma su Stadio e SPQR Sportsera, aveva preferito glissare sull’argomento. Per ora, il suo personalissimo oracolo funzionava e non vedeva la necessità di rivelare ad alcuno il motivo che lo aveva spinto ad affrontare Roma.
Facendo un salto indietro, Omero racconta di una famosa partita giocata nella odierna Turchia tra personaggi di alto lignaggio della Grecia antica. L’incontro tra Achei e Troiani, fu lungo e cruento e fu vinto solo dopo anni di sofferenze dai primi. La formazione dell’Athina Dos Association, che presentava un invidiabile 2-2-6 prevedeva: Ajace Telemonio tra i pali, Agamennone in cabina di regia, ben supportato dal fratello Menelao, Ulisse come rifinitore ed il bomber Achille davanti a tutti.
Dall’altra parte il Troian Team, campione in carica nel campionato ittita, aveva fior di giocatori: il buonissimo portiere Re Priamo (famoso per un suo difettuccio, quel priamismo che ne facilitava il compito nelle parate più ardite e difficili), lo stopper Ettore di valenza internazionale predestinato al pallone d’oro secondo France football, ed il cobra Paride in attacco al fianco di Hakan Sukur.
Nonostante la forte supremazia territoriale, i greci condizionati dalla scarsa vena di Achille, pur comandando il gioco riuscirono ad ottenere innumerevoli calci d’angolo. Ettore in primis ed il padre Priamo avevano avuto buon gioco dei loro attacchi, ed anzi avevano spesso, cercato di lanciare in contropiede il perfido Paride sempre ben controllato dalle difese elleniche, capitanate dallo stopper Menelao che sembrava avere un conto aperto con lui.
Si sarebbe potuto continuare a giocare per anni ed anni senza giungere alla conclusione della partita (dopo la quale, la FIFA decise l’introduzione dei calci di rigore che ancora ci accompagnano), quando finalmente qualcosa cominciò a muoversi sullo scacchiere. Hakan Sukur atterrò da dietro Patroclo. Il fiero Achille, fino allora ombra del terrore delle aree da rigore, si avventò urlando tutta la sua ira, per sbaglio contro Ettore, credendolo l’autore del fallo generando una rissa. Ettore fu espulso ed Achille solo ammonito.
Quando la partita riprese, l’astuto Ulisse che giocava a contatto con Priamo ancora sconvolto per l’allontanamento dal campo del figlio prediletto, calò senza indugio il cavallo (la partita si giocava con carte napoletane) come gli aveva suggerito con un fugace sguardo Elena.
«Troia!» Esclamò Priamo nei confronti della donna, essendosi accorto dell’ammiccamento e sentendosi tradito. L’uomo confuso, sbagliò così a replicare e perse la finale. Questa partita, come tutti sanno verrà ricordata per il Cavallo giocato da Ulisse, e per l’appellativo poco elegante (troia) che il regnante dell’omonima città aveva voluto regalare alla enigmatica donna della sua squadra.
La storia racconta poi, come nel sottopassaggio che portava agli spogliatoi, ci furono degli scontri, nei quali il cobra Paride con un sapiente colpo al tallone mise fine anzitempo alla carriera del promettente Achille.
Ulisse che tenta di quietare il compagno di squadra dopo la rissa.Il gioco del due provocò anche altri disguidi a Lilliput, dove il famoso fuoriclasse Gulliver, un vero gigante, si trovò nel mezzo di un conflitto tra i Lillipuziani convinti di avere ragione a chiamare bastoni il loro seme preferito ed i Blefuscudiani decisamente progressisti che sostenevano di volerlo chiamare picche. La grandezza del supercampione mise tutti d’accordo alla fine, anche se, ci fu una scissione tra le due federazioni che rischiò di un boicottaggio ai giochi invernali di Lilliput.
Le difficoltà riscontrate a livello alfanumerico durante il millennio di dominazione Romana, non furono nulla in confronto a quelle che i discendenti dei capitolini incontrarono dopo la discesa dei barbari. Gente rozza, che alle prime difficoltà nel gioco faceva scintillare le spade, e non quelle del seme delle carte. Attila ad esempio di vantava di non avere mai perso un incontro. Però si dimenticava di aggiungere che non aveva in pratica mai finito una partita, senza mozzare la mano o la testa di chi osava contraddirlo e meno che mai azzardarsi a prendere le carte dal tavolo. L’Unno chiamava sempre e non lesinava di distribuire mazzate a chiunque provasse a fare sua una mano. Alcuni studiosi dell’epoca storica fanno coincidere il periodo, con quello in cui è stato inventato un altro gioco di carte celebre: “il Trisett ciapà no” che era decisamente più consono a quei tempi.
Attila 450 D.C. Uno di noi 2005 D.C.
Similitudini senza tempo tra “Barbari.”Riuscire ad emergere in quel periodo storico e ad imporre la propria filosofia di gioco era più che mai problematico per le squadre italiane. Ed infatti, le competizioni internazionali furono vinte per molti anni dalle orde nordiche: Unni, Visigoti, Goti, Ostrogoti, Borussia Dortmund, Borussia Monchengladbach ed altre teutoniche squadrette, senza particolare tecnica ma tanta grinta e violenza occuparono territori e zone alte della classifica, relegando gli eredi del mitico Angiolino ad un ruolo di comprimari.
L’evoluzione continua del gioco, allontanò sempre di più tifosi e critica dall’Italia. Il gioco vecchio stile, basato sul contropiede era stato superato dal più irruente e remunerativo metodo di gioco che consisteva nel radere al suolo ogni avversario. L’invasione barbarica aveva spostato quindi il baricentro tattico dal Bel Paese alle fredde foreste del centro nord Europa. Ma la carenza di fondamentali, e la pochezza tattica di un gioco basato solo sulla forza fisica e sull’abuso di alcolici (birra come se piovesse) non garantirono ai nuovi padroni del gioco la stessa robustezza dei predecessori.
Si affacciarono, infatti, nuovi talenti e nuove squadre con unico denominatore comune, quello di raccogliere la pesante eredità del gioco della briscola a chiamata.
“Mr. Angiolino was born in London!” Apparve su di uno striscione al mitico Wembley durante la finale dei mondiali giocata tra la compagine di casa e la Caledonia. E l’eroe di tante battaglie, colui che aveva giocato con nientemeno che Zeus, non rimase sordo a tale affermazione e si accasò ai Tottenham Hotspur con l’intento di ridare prestigio al team londinese caduto un po’ troppo in basso.
«…ohé… ohé… Mister Angiolino!» Cantava tutto lo stadio quando dopo l’annuncio delle formazioni il neo acquisto entrò sul tavolo da gioco. L’esordio era coinciso proprio con il giorno del derby contro gli odiati cugini dell’Arsenal: la classica partita che può valere una stagione.
I tifosi degli Hotspur sembravano entusiasti del nuovo acquisto che nonostante il fisico magrolino e poco prestante, aveva un curriclum vitae di tutto rispetto, e non mancavano occasione per fare sentire all’ultimo arrivato tutto il loro affetto e calore:
«Angiolino ce l’abbiamo noi! Ce l’abbiamo noi.»
Nella fretta di concludere l’affare ed apporre la propria firma in calce sul contratto “l’animale da due” aveva dimenticato di avvisare la controparte, che non disponeva di un perfetto inglese, e che aveva imparato sull’aereo le frasi principali che gli sarebbero servite durante le partite.
«I call the two at seventyeight… of picche!» urlò esordendo il nuovo pupillo dei tifosi gelando le schiene di molti dei presenti. Solo la fortuna, da sempre alleata degli audaci, e più che mai cecata, gli permise di vincere la partita e di regalare ai tifosi del Tottenham la gioia del trionfo nel derby. Ad Angiolino, infatti, “gli si erano confuse le mani” (chi come me c’era quella sera, quando pronunciò questa frase, non può certo averla dimenticata) ed al suo turno aveva pronunciato l’unica frase che gli era passata per la testa. Possedeva, solo l’asse di Picche e senza rendersene conto aveva prima ancora di cominciare già messo a segno la prima cazzata. Trovò come socio Elton John, culattacchione in tutti i sensi.
Il socio possedeva due, sette, fante, donna e re e gongolando inviò un bacino al suo comandante, aumentando così l’entropia nella testa del malcapitato. Angiolino calò un carico, il socio mise con sicurezza il sette di briscola, i giocatori dell’Arsenal sorridendo aggiunsero altri tre carichi e si voltarono verso l’ultimo giocatore, l’ago della bilancia. Il concorrente in oggetto, altri non era che il principe Carlo strappato per l’occasione al polo, causa un brutto foruncolo sulla schiena che non gli avrebbe permesso di essere sellato, e quindi di prendere pare la match tra Tudor e Windsor. A Quel punto l’Arsenal riponeva tutte le sue più floride speranze nel componente a sangue blu, della sua squadra, l’unico londinese presente al tavolo. Il principe, alzò il suo sguardo equino, annuendo e muovendo nervosamente le orecchie. Con quattro carichi sulla tavola, sarebbe bastato prendere per avere partita vinta, già alla prima mano.
La tensione era palpabile. Migliaia di occhi fissavano il principe, che compiaciuto sembrava voler allungare ancora di più l’agonia degli Hotspur. Gli si leggeva in faccia che la briscola ce l’aveva, e anche grossa a giudicare dal lievissimo nitrire che si era lasciato sfuggire.
Tutto successe in un istante. Il componente della famiglia reale si apprestò a calare il suo tre di briscola, quando da una delle porte laterali fece comparsa Camilla Parker Bowles urlante:
«Carlo! Te l’ho già detto che non voglio che ti metti le mie mutande!»
Arrossendo l’equino… volevo dire il principe ebbe un sussulto che gli fece scegliere la carta sbagliata, e calò per errore l’asso di fiori. (Poi, meravigliamoci se gli inglesi non vogliono Camilla come regina.)
Delusione sugli spalti ed in campo, con il mister Wenger, che richiama immediatamente il confuso principe in panchina e mette in campo Dennis Bergkamp al suo posto. La partita però era irrimediabilmente compromessa ed a quel frocione di Elton John, bastò calare in sequenza il suo vasto repertorio di briscole, per mettere in difficoltà tutta la squadra avversaria.
Angiolino grazie al cappotto a settantotto, riuscì a ridistinguere le mani, ed ottenne per la vittoria stracciante nel derby le più alte onorificenze possibili, mentre ad Elton John che lo aveva aiutato in maniera sostanziale, fu permesso di mettere in commercio il suo ultimo successo: “Candle in the wind.”
La rabbia della regina Elisabetta, da sempre simpatizzante dell’Arsenal, si sfogò sul figlio, al quale impose per punizione tre mesi senza carote ed il divieto assoluto di indossare biancheria femminile. Meno che mai, quella appena smessa da quella cozza che sarebbe dovuta diventare la sua futura nuora.
L’astro di Angiolino, sorretto dalla fortuna non durò a lungo nella Britannia. Un po’ più a sud, tre amiconi stavano cercando di dare una “tagliata” al passato aristocratico ed a dare nuova linfa ad un rivoluzionario modo di interpretare il due. Georges Jacques Danton, Jean-Paul Marat e Maximilien Robespierre, fautori di un nuovo modo di interpretare il due, infatti, avevano deciso di liberare la Francia da quel suo vecchio ed aristocratico sistema di gioco. Essi formarono un trio affiatato difficilmente riscontrabile in altre epoche. Neppure il Gre-No-Li di milanistica memoria o quello degli angeli con la faccia sporca (Sivori-Maschio-Angelillo) riscosse lo stesso successo. Attenendosi strettamente ai consigli del loro personal trainer monsieur J. I. Guillotin, che gli fornì anche il particolare attrezzo, utilizzato in allenamento e poi in seguito anche nelle partite, i tre fecero il vuoto intorno a loro. Nessuno dei vecchi giocatori pareva resistere al nuovo metodo che era capitato loro, è il caso di dirlo tra capo e collo.
E fu così che cavalcando l’entusiasmo per i ripetuti successi in ambito nazionale, anche dopo l’eliminazione, stavolta fisica dei tre assi, messi tra l’altro più volte in discussione dall’antidoping, a causa della “presa della Pastiglia” un nuovo mostro sacro si mise in luce e conquistò subito il mondo intero per l’ardire e la genialità delle sue tattiche. Un corso, minuto di statura e prepotente, dal nome altisonante: Napoleone Bonaparte, decise che era giunto il momento per la federazione francese di avere maggior peso a livello prima europeo, e poi anche mondiale. Usurpando il soprannome che un paio di secoli più tardi il mitico Adriano avrebbe guadagnato sul campo di San Siro, il piccolo Imperatore sbancò i campi avversari ottenendo successi a ripetizione.
Per dimostrare la sua grande superiorità, il tenace piccoletto mise a ferro e fuoco i paesi vicini, avanzando ed imponendo a tutti lo strapotere delle sue tattiche. Alla fine del girone di andata, non era difficile prevedere che la sua armata si sarebbe aggiudicata l’intera posta in gioco. Le vittorie schiaccianti a Alessandria d’Egitto, Marengo, Hohelinden, Ulma, Austerlitz, del resto confermavano in pieno i pronostici della vigilia. La Grandeur come napoleone chiamava affettuosamente la sua creatura, dava ampie garanzie in ogni reparto.
Si arrivò così alla vigilia di un importante incontro, che si sarebbe tenuto a Waterloo amena località sita a sud di Bruxelles. Il minuscolo capitano della compagine francese sicuro ormai della vittoria che lo avrebbe consacrato grande fra i più grandi, alla vigilia rinunciò alla solita pretattica e si lasciò andare a frasi tronfie:
«Il duca di Wellington è un pollo. Lo conosco bene, tutte le volte che prova la sporca si innervosisce e comincia ad avere quello strano tic all’occhio. Credo che domani elimineremo per sempre quell’idiota.»
In realtà, in virtù della classifica avulsa a Bonaparte sarebbe bastato un doppio pareggio nelle ultime due trasferte per fare sua la coppa, ma il carattere del capitano francese non lo avrebbe mai portato ad accettare anche la sola idea di abbandonarsi al catenaccio e portare in porto il risultato. Quello che successe, lo sappiamo tutti. Batosta subita nella partita forse decisiva e sconfitta anche a Mosca.

Zero punti in due partite e tutti a casa, vanificando il lavoro di preparazione ai mondiali che i francesi avevano svolto per anni e anni di umili sacrifici.
Ed il gioco del due cambiò ancora dimora, ritornando tra le mani degli eredi dei Barbari, quei prussiani che avevano aiutato da oriundi la squadra del duca di Wellington. I borboni adesso imperversavano da soli e si erano assicurati il predominio della Eureka Champions League. La squadra principe di questo periodo era l’Austria Vienna, che aveva in Prohaska, Schachner e Francesco Giuseppe I° il punto di forza.
In Italia, dove il gioco del Due aveva trionfato per più di un millennio, le cose continuavano ad andare male anche se, nuovi talenti stavano cercando lavorando in incognita di ridare lustro ai fasti di un tempo. Camillo Benso Cavour, soprannominato il conte per i modi aristocratici e la sua mania di emettere dei rutti giganteschi durante le chiamate ed accompagnare le sue giocate da fetentissime scoregge, intuì per primo che i tempi per risorgere erano ormai maturi e parlò del progetto all’amico Mazzini. I due, assoldarono un centravanti di tutto rispetto Giuseppe Garibaldi che con i mille, diedero il nome alle vie principali ed alla piazza del nostro paese. No, andiamo con ordine, il nome a vie e piazze gli sarebbero stati tributati solo in seguito. Prima, facciamoli vincere.
Il conte ed il suo amico tramarono insieme, per creare i presupposti necessari a fare rinascere l’antica tradizione del Due italiano. Un prodotto da esportare, altro che il Gran Biscotto Rovagnati.
Decisero di fondare una nuova squadra, “la giovine Italia” e di provare con essa la scalata al potere del Due mondiale. Per non bruciare troppo precocemente il giocatore più rappresentativo, quel Giuseppe Garibaldi di cui abbiamo già accennato, decisero di mandarlo a farsi le ossa in una squadra provinciale, inviandolo insieme con altri mille compagni a giocare nel campionato di Sicilia. Solamente il Palermo di Totò Schillaci, riuscì in qualche modo a tenere per un po’ il passo dell’armata rossa capitanata dall’astro nascente del due italiano. Il Catania di Massimino invece, nonostante godesse i favori del pronostico, fece una pessima figura e fu eliminato al primo turno.
«Presidente! Con tutti questi nuovi giocatori, alla squadra mancherà certo l’amalgama.» Lo aveva avvertito uno dei giornalisti durante il ritiro precampionato.
«Dimmi in che squadra gioca questo minchione di Amalgama che lo compero subito.» Aveva risposto il presidentissimo.
Così, sforzando tutto il suo impegno alla ricerca del nuovo asso da aggiungere alla squadra per il futuro, l’uomo aveva perso di vista il presente ed il Catania era crollato sotto i colpi delle camice rosse.
L’ombra del doping, si affacciò anche allora sul mondo del due. Il fattaccio avvenne non appena il prode centravanti dei Mille, (così era stata soprannominata la squadra campione di Sicilia) varcò lo stretto trionfante con Anita, la sua compagna di tante battaglie con l’intento di tornare al nord.
I due furono portati davanti al commissario sportivo che richiese subito le analisi ematiche del campione. Non trovando alcun valore alterato, Garibaldi alzò la voce esigendo di essere rilasciato, ma il commissario calabrese fu intransigente:
«Lei è stato fermato all’atto di rientrare nel continente, con una grossa quantità di sostanze stupefacenti. Per questo motivo, io la sto incriminando per importazione clandestina di eroina.»
Ci volle molto tempo agli avvocati difensori del centrattacco, per spiegare che l’unica eroina presente era Anita, la compagna di Garibaldi, e che essa non poteva essere certo considerata sostanza stupefacente.
Il dottor Massimo Moratti intanto, entusiasmato dalla classe del nizzese, tentò un blitz scendendo al sud con il suo aereo privato per cercare di convincerlo a firmare per la sua squadra. Gli offrì uno di quei contratti, che solo lui è in grado di regalare ai suoi pupilli. Garibaldi, lusingato dalla corte serrata del patron di una delle squadre più famose d’Italia, avrebbe firmato subito, in quell’amena località del sud, se non fosse successo l’imprevedibile.
A Teano, luogo dell’incontro tra Garibaldi ed il dottor Moratti giunse veloce come un fulmine Vittorio Emanuele II°, che ricordò al campione l’opzione con i Savoia: contratto stipulato grazie al conte Cavour che legava immagine e servigi del campionissimo con la “giovine (si scrive così, ma si legge Juventus) Italia” e fece presente anche la ferma intenzione di esercitare il diritto di opzione, mandando in fumo i progetti del presidente nerazzurro che si dovette consolare di comperare Ince al mercato di ottobre.
In ogni caso i tre, supportati anche da Giuseppe Verdi che accompagnò le gesta trionfali dell’Italia con le sue musiche, ridiedero splendore al gioco all’italiana che risorse finalmente. Tra l’altro, l’Angiolino nazionale, vista la male parata dopo aver contribuito in maniera sostanziale con le sue cazzate a fare fallire l’intera società Dueistica inglese, prese la palla al balzo e fece ritorno in patria. Aveva, l’intrepido ometto, anche fatto un tentativo di riciclarsi negli Stati uniti, dove però il due faticava a prendere piede ed a ritagliarsi quello spazio, che il poker stentava a concedere. Tra l’altro anche ad uno sprovveduto (e gli sto facendo un regalo) come lui, era bastato assistere ad un paio di partite terminate con altrettante sparatorie, per comprendere che ‘sti americani disponevano di meno fair play rispetto agli inglesi che lo avevano pure cacciato dal Regno Unito a pedate nel culo, e che gli sarebbe stato difficile mantenere intatta la pellaccia qualora avesse avuto la malaugurata idea di sbagliare a giocare una carta.
Dopo avere ricostruito la propria fama ed avere ripreso il posto che le spettava nel ranking mondiale della DUEfa, l’Italia all’inizio del ventesimo secolo, cominciò a sentire la necessità di riprendersi anche a livello internazionale. Si buttò a capofitto nel primo conflitto mondiale e riuscì a mettersi dietro Teutonici e soprattutto una volta per tutte i Borboni.
L’avvicendamento di campioni portò in contemporanea, due nuovi talenti naturali ai massimi vertici mondiali. Mussolini a guidare l’Italia ed Hadolf Hitler, a spingere in alto la sua Germania, appena ripresasi dalla prima batosta mondiale cui era seguito il logico esonero dell’allenatore. Di carattere molto ambizioso, i due si allearono con l’intento di riuscire insieme a dominare il mondo del due e di lasciare agli altri solo le briciole, (un po’ quello che succede nel calcio tra Juve e Milan.)
Logica conseguenza della politica autarchica della federazione italiana, fu quella di richiamare in patria qualunque elemento potesse richiamare gli antichi fasti del glorioso passato. Mussolini stesso mise a punto un piano in cui si diceva certo di riportare a casa, “la gioconda,” trafugata da quei maledetti francesi con la erre moscia, e Angiolino, l’uomo monumento per antonomasia. Il mitologico “animale da due” che era caduto in disgrazia alla corte della regina Elisabetta, e per il quale gli inglesi avevano apportato qualche modifica al proprio inno nazionale:
“God save the Queen, e manda a ca sua Angiulen…”
Il nostro uomo colse l balzo l’ennesima opportunità che cotanto culo gli aveva offerto, e nottetempo si imbarcò sulla Queen Mary sbarcando felice nel porto di Genova.
«Finalmente sono a casa! Ora sono certo che l’Italia vincerà i prossimi mondiali.» Affermò l’eroe nazionale, nel momento in cui appoggiò dopo tanti anni il piede sul suolo italico.
Hitler non era entusiasta che tale giocatore tornasse in patria e meno che mai che potesse essere considerato un eroe dal suo amico Benito. Lui aveva un’altra ed alta, considerazione di quello che avrebbe dovuto essere un eroe nazionale e non mancò di farlo presente:
«Qvello lì non piace. Non è biondo, non è alto, e non ha neanche gli okki azzurri…»
«Dai Adolfo, non mi fare l’immaginifico! Lo so ben anche io che non è un ariano come lo vorresti tu. Ma devi considerare che…»
Il duce convinse il suo alleato a lasciare perdere promettendogli, che non avrebbe mai schierato la sua punta di diamante nelle partite tra le camicie nere e quelle brune. Soprattutto, gli assicurò che dopo avere recuperato da Parigi, il tanto anelato quadro di Leonardo da Vinci, avrebbe lasciato a lui l’onore di radere al suolo l’intera capitale francese.
In condizioni normali convincere il crucco non sarebbe stato così semplice, ma il duce sapeva il fatto suo. Aveva scoperto un punto debole del suo alleato e non perdeva occasione per approfittarne. Tutte le volte che doveva trattare con lui, usava mettere come sottofondo musicale “La cavalcata delle valchirie” e con quello stratagemma riusciva ad ottenere quello che voleva.
In realtà, il baffetto tedesco, aveva la mente altrove. Aveva già battuto mezza Europa, e sconfitto la linea Maginot dei francesi. Puntava diritto ad est per sfidare Dinamo Kiev e Spartack Moska, ma soprattutto stava vagliando l’ipotesi di accettare le lusinghe dell’imperatore Hiro Hito, e di permettergli di entrare a fare parte della sua coalizione. Questa alleanza avrebbe creato i presupposti per esercitare l’opzione sul cartellino di Nakata e forse anche di Ono e Nakamura. Logicamente poi, avrebbe permesso al grande dittatore di ottenere uno sconto particolare per l’acquisto di una Kawasaky, la sua moto preferita.
Le ostilità intanto erano riprese, e per la nuova alleanza le cose non andavano particolarmente bene. Se le squadre tedesche vincevano a mani basse un po’ dappertutto, L’Italia impegnata nella coppa d’Africa faticava assai a venirne a capo. I nipponici, nonostante il grande impegno e qualche buona prestazione, contro il Pearl Harbour innanzitutto, non erano ancora riusciti a sfondare ed a dare continuità alle loro vittorie.
Angiolino poi, se stava incidendo nelle partite, lo stava facendo sempre in maniera deficitaria, riuscendo a perdere partite già vinte con giocate a dir poco idiote. Il poverino si difendeva addossando al fatto che gli inglesi ormai lo conoscevano, e che sapevano come prevedere le sue mosse.
Poi, ci fu la grande svolta. Il campione portacolori della squadra italiana, organizzò una conferenza stampa a piazza Venezia, per dichiarare il suo intento di lasciare l’attività agonistica.
«… mi sono reso conto che nella condizione attuale non sono in grado di fornire con il mio gioco pur brillante, il necessario apporto di concretezza alla nostra squadra. Pertanto, dichiaro che da oggi stesso abbandonerò l’attività agonistica.»
Il duce al suo fianco, che aveva assistito a tutta la dichiarazione con il braccio destro levato in un prolungato saluto romano, ruppe il silenzio e gli chiese:
«Mio eroe. Allora vorresti dire che abbandonerai definitivamente il mondo del due?»
Nel tono della domanda di Mussolini, si poteva leggere la delusione per quanto avrebbe potuto essere e non era stato, e di sollievo per il fatto che l’imbecille si togliesse finalmente dalle palle, rescindendo il proprio oneroso contratto.
«No! Non giocherò più, ma dedicherò anima e corpo a procreare ed a cercare di mettere al mondo degli eredi che potranno contribuire alla nostra causa.»
Emissari dell’alleanza presenti alla conferenza inviarono immediatamente dei dispacci urgenti alle proprie ambasciate, con il messaggio tradotto in madrelingua.
Le contromisure degli alleati furono immediate: il dottore giapponese Ogino ed il suo esimio collega austriaco Knaus, furono incaricati di rendere impossibile il progetto del famigerato campione italiano.
Indipendentemente, i due ricevettero l’ordine di lavorare allo stesso progetto, che tra l’altro il fhurer sognava di concretizzare al più presto. Voleva estendere il risultato di tale studio, anche per risolvere il suo annoso problema con le minoranze ebraiche, essendosi accorto leggendo i bilanci, che mantenere aperti tutti quei campi di concentramento, cominciava a gravare sull’erario.
Esperimenti in casa Knaus.La storia, implacabile ci racconta come andò a finire. Italiani, tedeschi e soprattutto i giapponesi furono messi da parte e dovettero ancora una volta ripartire da zero, per risalire i valori della graduatoria DUEfa. I tedeschi persero il loro leader che non reggendo alla sconfitta, quando ormai pregustava il successo si sparò un colpo. Gli italiani dopo l’illusione di ripartire in grande dal Salò, dovettero rimboccarsi le maniche e ricominciare dal basso. I giapponesi nonostante la profonda sconfitta che li relegò definitivamente nella serie B del due mondiale, invece che contestare il loro presidente per tutti gli errori commessi e le scelte tecniche scellerate, continuarono ad idolatrare Hiro Hito, non mancando mai di dedicargli qualche suicidio, in onore di qualsiasi sua nuova affermazione.
E Angiolino? Quel diavolo di Angiolino ne uscì come sempre indenne. Superò anche questo momento burrascoso e poi, con il tempo si ripresentò a giocare ai tavoli del due, illuminando tutti per la sua tecnica sopraffina. Anzi, non mi meraviglierei, di vedermelo arrivare qualche venerdì sera e di trovarmelo nuovamente di fronte.