domenica 14 marzo 2010

per non dimenticare.

Come dimenticare il caro Fulvio del bar Gilè. Come dimenticare le tante serate passate da lui dove abbiamo cominciato, sono passati almeno 30 anni (qualcuno in più di sicuro), a giocare al due. Quando si distraeva e portavamo indietro di un ora la lancetta dell'orologio per continuare a giocare.
Chi non ricorda questo suo pezzo forte? Come non ricordare quando prendeva la chitarra e cantava...

L’era mai success
(El Pinza)
L’era mai success
Hoo nanca trovaa on cess
Me son cagaa adòss
a Montecarlo

Merda a non finir
Spuzza da impazzir
Se voltaven tucc
A Montecarlo

Gh’era il vent a l’incontrari
Gh’era nanca on orinari

Merda in di mudand
Merda in mezz a i gamb
Hoo impienii de merda
Montecarlo

Sur la Promenade
A gh’eran di grand cagad
Scarligaven tucc
A Montecarlo

Pure in ‘riva al mar
L’era on patenoir
Patenoir de merd – naturalmon –
A Montecarlo

Oh mon dieu che tanf si sente
Me s’eri ciocch de la merd – la dis – la gente

Merda in di calzett
Merda in del culett
L’era pien de merda
Montecarlo

El Ranieri con la Grace
Non si danno ormai più pace

Dicon le rivist
Adesso che hanno vist
“Ma che paes de merda
Montecarlo”

Ma mi ghe vegni pù
a Montecarlo
Ma mi ghe vegni pù
a Montecarlo

il mitico uccelletto

in ricordo dei bei tempi andati

Era d'Agosto e il povero uccelletto
ferito dallo sparo di un moschetto
ando', per riparare l'ala offesa,
a finire all'interno di una chiesa.

Dalla tendina del confessionale
il parroco intravvide l'animale
mentre i fedeli stavano a sedere
recitando sommessi le preghiere.

Una donna che vide l'uccelletto
lo prese e se lo mise dentro il petto.
Ad un tratto si senti' un pigolio:
cio cio, cip cip cio.

Qualcuno rise a 'sto cantar d'uccelli
e il parroco, seccato, urlo': "Fratelli!
Chi ha l'uccello mi faccia il favore
di lasciare la casa del Signore!"

I maschi, un po' sorpresi a tal parole,
lenti e perplessi alzarono le suole,
ma il parroco lascio' il confessionale
e: "Fermi - disse - mi sono espresso male!

Tornate indietro e statemi a sentire,
solo chi ha preso l'uccello deve uscire!".

A testa bassa e la corona in mano,
le donne tutte uscirono pian piano.
Ma mentre andavan fuori grido' il prete:

"Ma dove andate, stolte che voi siete!
Restate qui, che ognuno ascolti e sieda,
io mi rivolgo a chi l'ha preso in chiesa!"

Ubbidienti in quello stesso istante
le monache si alzaron tutte quante
e con il volto invaso dal rossore
lasciarono la casa del Signore.

"Per tutti i Santi - grido' il prete -
sorelle rientrate e state quiete.
Convien finire, fratelli peccatori,
l'equivoco e la serie degli errori:
esca solo chi e' cosi' villano
da stare in chiesa con l'uccello in mano!"

Ben celata in un angolo appartato,
una ragazza col suo fidanzato,
in una cappelletta laterale,
ci manco' poco si sentisse male,
e con il volto di un pallore smorto
disse: "Che ti dicevo ? Se n'e' accorto!"


Trilussa

8 Occhio Pigro



Occhio pigro.
Aaron Brentano è un bambino affetto da ambliopia. Il suo occhio pigro fatica a leggere due decimi dalla tavola ottometrica. In realtà, l’occhio di Aaron vede cose che gli altri non possono neppure pensare di guardare: egli legge i pensieri delle persone che riesce suo malgrado sforzandosi a mettere a fuoco.
La prima a scoprire la capacità del bambino è l’ortottica che lo ha preso in cura. La donna però, non da la giusta importanza al fenomeno e si limita a cercare di correggere in maniera convenzionale il difetto visivo. Nessuno intuisce la pericolosità del fenomeno né le origini del problema. Solo un santone pellerossa si rende conto dei pericoli che corre, mettendo in guardia Aaron. Purtroppo sarà l’unico a capirlo.

7 Sette Lune



Sette lune.
La storia di due giovani amici che per motivi diversi sono emarginati dai compagni di classe. La loro amicizia aiutata dalla saggezza del nonno del piccolo pellerossa vincerà a mani basse sui pregiudizi e le ingiustizia della comunità in cui vivono.

6 Sotto il segno del 2



Sotto il segno del 2.
Il racconto delle origini del gioco di carte più bello del mondo. Ci si può trovare storia, mitologia, regole, descrizione dei campioni di oggi e di ieri del gioco che ci inchioda ogni venerdì sera ad un tavolo. Ovviamente, il tutto secondo il mio modesto parere.

5 L'audace colpa dei soliti in OTI



L’audace colpa dei soliti in OTI.
Presa in giro della ditta in oggetto, attraverso il filo conduttore dei fatti realmente accaduti e solamente un po’ ingigantiti. Le vignette ed il racconto estremizzano, ma “non inventano” nulla di quello che è veramente successo in OTI in quegli anni di piombo.

4 Così, come un semino di limone



Così, come un semino di limone.


Andy Stoowe in un pub, tutto solo sta festeggiando a modo suo il quarantesimo compleanno. Sta osservando il saliscendi di un semino di limone nel suo bicchiere di Sprite. Accomuna per un attimo il movimento del piccolo semino all’andamento della propria vita.
Andy Stoowe è diventato uno scrittore di successo. Lo è diventato anche grazie al prezioso aiuto di Helene, sua moglie.
Il giorno che decide di acquistare una vecchia casa sulle rive del fiume Roseau, per farne il centro del proprio mondo, non può immaginare quel cui andava incontro. La casa, infatti, ha avuto un passato turbolento, e conserva ancora viva la memoria delle malefatte che vi sono state compiute. Le anime infelici che la popolano, riescono a mettersi in contatto con facilità, con le persone che sono prossime a raggiungerle.
Helene, riuscirà ad ascoltare la loro voce, prima di sparire e di lasciare il marito in preda alla disperazione. Andy, camminando sul filo del rasoio della pazzia e dell’irrazionalità, troverà il modo di comunicare con le entità presenti nella sua casa. Loro, lo guideranno attraverso mondi sconosciuti e gli permetteranno di fare luce sulla storia della sua abitazione e sulla sorte della moglie. Quello che scoprirà però, non farà di Andy un uomo felice.

3 Il Patto



Il patto.
In punto di morte, ad un uomo è offerta la possibilità di salvarsi e di vivere in eterno. Jacob gli prospetta invece di una morte dolorosa e sicura la possibilità di sopravvivere al tempo e di rinascere per sette volte. In cambio, lo strano individuo chiede solo che prima di lasciare il mondo in cui è stato proiettato, il suo uomo debba rovinare tutti e tutto quello con cui è stato a contatto. Alla fine del percorso, affrontato sempre come uomo di successo ed immortale, gli spetterà un posto di riguardo nell’eternità. Ma può, un semplice uomo, riuscire ad essere così cattivo per sempre?

2 Deus Tenebrarum



Deus Tenebrarum

Un gruppo di giovani amici in cerca di nuove emozioni decide di sottoporsi ad una seduta spiritica. Il nuovo gioco di una notte d’estate, si rivelerà per i cinque ragazzi, a dir poco sconvolgente. Camminare con la sensazione di essere seguiti, vivere con il timore di rimanere soli al buio diventa una cosa normale per loro.
Per fortuna però, si tratta solo di un incubo… o forse no?

1 Roseau River



Roseau River
Un giovane ingegnere dalle indubbie capacità viene coinvolto in un incidente che ne sconvolge l’esistenza. Il suo migliore amico rimane ucciso a causa di una perdita di gas tossico, e lui viene indicato come responsabile dell’avvenuto. Un processo lo scagionerà, ma la sua brillante carriera sarà ugualmente compromessa.
Deciderà di ricominciare da zero, facendosi assumere al Fish & Wildlife Service, come guardia forestale.
Il nuovo lavoro gli permetterà di ridisegnarsi l’esistenza e di rimettersi nella giusta carreggiata. Sulla sua strada troverà molte difficoltà, ma alla fine, nonostante dolorose situazioni, ci riuscirà.

giovedì 11 marzo 2010

hit parade del calcio.

HIT PARADE DEGLI INTELLETTUALI DEL CALCIO

43° Superman
"Direi, forse, senza dubbio, forse che per vincere oggi ci è mancato un uomo, più che un uomo direi un uomo..." (Giovanni Trapattoni, dopo
l'infortunio a Lothar Matthaeus a Vienna in Rapid Vienna-Inter 2-1, Coppa Uefa 1990/91)

42° Esperanto
Domanda di un giornalista spagnolo ad Altobelli nel ritiro dell'Italia
Spagna '82: "Tu eres acasado? (sei sposato?)".
"Risposta: Certo, che sono gasato, il mondiale ti carica tantissimo!".
(Spillo Altobelli, giugno 1982)

41° sorrisi
"Vedo un sorriso come nemmeno Giotto riuscì a fare alla Gioconda" (Maria Teresa Ruta, conduttrice Domenica Sportiva)

40° Evviva la sincerità...
"Io non posso vivere senza il cazzo" (Antonella Clerici, volendo riferirsi invece al calcio).

39° Volere è potere
"C'è chi può e chi non può: io può!" (Originale: Il Presidente del Catania Massimino, poi ripreso da Ciccio Graziani)

38° Repetita iuvant 1...
"Sono entrati in campo Del Piero, con la maglia 17, e, con la maglia
numero 13, Del Piero" (Bruno Pizzul)

37° ... e 2
"Cesena in vantaggio sul Cesena"(Ezio Luzzi)

36° Grazie, grazie...
"E' un gol che dedico in particolare a tutti" (Toto Schillaci)

35° Meriti
"Abbiamo perso sicuramente più per demeriti nostri che per bravitù altrui" (Michele Paramatti)

34° ampio bagagliaio linguistico
".... questo giocatore ha un grande bagagliaio tecnico" (Pietro Anastasi, telecronista di Tele + durante una partita di serie B)

33° allora va bene...
"Sono pienamente d'accordo a metà col mister"(Luigi Garzya , ex giocatore ROMA )

32° Tremate!!!
"Questa Inter è come un carro armato a vele spiegate" (Spillo Altobelli)

31° ...
"Se quel palo sarebbe andato in gol..." (Ruggero Rizzitelli, ex giocatore ROMA )


30° Guerre stellari in campo
"Un giocatore con due occhi deve controllare il pallone e con due il
giocatore avversario" (Vujadin Boskov)

29° La mitologia non è un'opinione
".......perché Giannini gioca con quella spada di Pericle sulla testa..."

28° Per la precisione
"Per la mia carriera devo ringraziare i miei genitori, specialmente mio padre e mia madre"(Spillo Altobelli)

27° geografia 2
"Trapattoni non si discute: e' il migliore allenatore d'Europa e, forse, anche d'Italia" (Mauro Bellugi)

26° eh???
"La ricordate la storia di Golia e del gigante? . È come nel film "Il
sesto potere"; (in realtà "Il quarto potere" ndr). Le tensioni sono aumentate al mille... di più, all'un per mille!. Penso alla tutela della struttura societaria che vada tutelata. La vita ci dà martellate sui calli. Non vorrei saltare di palla in frasca. Bisogna costruire mattoni per essere solidi come il cemento armato".
(Giovanni Trapattoni, Convention TIM, 4 febbraio 2001)

25° L'italiano, questo sconosciuto
"Ho scattato sulla fascia, ebbi messo il pallone al centro... e Maiellaro ebbe fatto goal". (Giovanni Loseto, ex capitano del Bari)

24° ... certe cose si fanno tra intimi...
"Sia chiaro però che questo discorso resta circonciso tra noi" (Giovanni Trapattoni)

23° rest in peace
"L'arbitro manda i giocatori al riposo definitivo" (Bruno Pizzul)

22° Un vero paciere
"E voglio così porre fine alla polemica tra me ed il sottoscritto". Fabio Noaro, telecronista

21° armi geografiche
"Questa rovesciata di Vialli è potentissima, sembra una bomba al Nepal" (Bubba)

20° una similitudine omerica
Pagliuca uscì dall'area come cervo esce da foresta" Boskov

19° ormai anche troppo famosa...
Giornalista (riguardo la convocazione in Nazionale): "Totti, carpe
diem...". Totti : "Lo sai che io non parlo inglese"

18° ... ma c'è chi ha fatto di meglio:
Galeazzi: "I tifosi hanno esposto uno striscione con scritto: hic sunt
leones"
Parietti: "Bravo Giampiero, vedo che hai già imparato il portoghese!"
(Alba Parietti, nel collegamento per Portogallo-Italia)

17° ...
"Montero ha subito la frattura del sesso nasale". (Carlo Ancelotti)

16° humour inglese - ecco un uomo falso come il Reve!!!
"sono fiducioso, a Parma non ho mai perso!" (Roy Hodgson, ex tecnico
Inter)
(NDR: non ci aveva ancora mai giocato).

15° ...eh! Lo vuoi spiegare a me?...
"Passami quel fac... no non facs quello è il plurale, io ne voglio uno
solo". (Aldo Biscardi)

14° non fa una grinza!"
Io penso che per segnare bisogna tirare in porta Boskov" (ndr sempre più grande)

13° Medici
"Il piede continua a farmi male: andrò dal piediatra"(Franco Causio)

12° grandiosità
"Io credo che gli Europei sono una cosa mondiale" (Stefano Tacconi)

11° mister versione Jack lo squartatore
"E' vero, abbiamo perso, ma non posso proprio amputare niente ai miei
ragazzi" (Renzo Ulivieri, ex allenatore Bologna)

10° accosciati
Leggendo la formazione sul poster: "accosciati... e quando l'abbiamo
comprato questo?" (Cavaliere Pignatelli Presidente del Taranto '90)

9° fisici
"Certo, non ho un fisico da bronzo di Rialto"(Toto Schillaci)

8° l'importante è crederci
"Certamente ci sono creduto che avremmo qualificarci"
(Bellomo, presidente Monopoli)

7° .... eh già, era evidente ...
"L'hanno visto tutti che l'arbitro aveva il braccio in piedi" (Pasquale Bellomo, presidente del Monopoli calcio - Mai dire Goal 1999)

6° Il calcio è Arte...
"Ma come hai fatto a sbagliare? Ti ho fatto un cross che era una
pennellata! Sembrava un quadro di Pirandello!" (Franco Causio)

5° ....
"Ho visto la palla che mi arrivava, ho tirato una cagliosa e ho visto la rete che si abbuffava" (Giuseppe Bruscolotti commentando il suo primo gol in serie A)

4° un fisionomista nato!
"Cameriere questo prosciutto sa di pesce!" (NDR: era salmone affumicato)
(Antonio Scibilia, ex presidente Avellino calcio)



3° commovente attaccamento alla squadra
"I nostri tifosi ci seguono ovunque; in treno, in macchina, in nave,
perfino con dei voli Charleston".
(Massimino, mitico ex presidente del Catania).

2° ... vengo anch'io - no, tu no...
Presidente: "Fummo andati in Brasile e comprammo Juary..." Giornalista con mezzo sorriso: "Presidente... 'Siamo'... "
Presidente un po' spazientito: "Dicevo che fummo andati in brasile e
comprare..."
Giornalista con sorriso mal trattenuto: "Presidente...SIAMO!"
Presidente con tono iracondo: Ma che si' venuto pure tu?"
(ancora il grande Antonio Scibilia, ex presidente Avellino, ad una tv locale)

1° QUESTA E' IMPAGABILE
Intervista a Massimino (l'ex presidente del Catania):
Giornalista: "Presidente, adesso con tutti questi giocatori nuovi mancherà certamente amalgama..."
Massimino: "Dimmi Gigi (nome del giornalista..NDT) in che
squadra gioca Amalgama che lo compero!"

sangue chiaro

sangue chiaro

«Odio le costrizioni.»
«Che ne sanno, loro, i dottori di cosa voglio, cosa provo, cosa sente il mio corpo stanco...»
«Per loro io sono solo un caso da studiare. La tesi di laurea del prossimo figlio di papà, pronto laurearsi in medicina con il massimo dei voti.»
Il dramma di Tom era cominciato sei mesi addietro, nel momento stesso in cui si era dovuto sottoporre alle analisi del sangue dopo un meeting d’atletica.
L’infermiera che lo aveva bucato per il prelievo, era ormai stanca, ma era quasi svenuta quando, invece del solito liquido rosso scuro aveva estratto dalla sua pelle una sostanza trasparente come l’acqua. Aveva insistito incredula, a bucare il braccio del ragazzo fino a quando si era dovuta arrendere all’evidenza. Quel giovane nel quale la federazione sportiva riponeva tantissime speranze, aveva il sangue incolore.
La notizia aveva fatto il giro del centro sportivo, offuscando per un attimo le prestazioni sportive del ragazzo, che a sedici anni, aveva abbassato di 4/10 il record mondiale dei 100 metri.
Lo avevano sottoposto ad ogni genere di test, alla ricerca di una spiegazione scientifica. Tom si era dovuto rassegnare ad eseguire ogni tipo di test attitudinale, ed a subire i più invasivi e fastidiosi controlli medici.
Con lo scopo di studiarne lo strano caso, il giovane, era stato imprigionato in un centro di medicina sportiva a completa disposizione di un team di biologi.
“Ancora un paio di giorni, poi potrai tornare a correre in pista!” Gli aveva assicurato Joan, la più giovane tra le dottoresse che lo aveva preso in consegna: ma da allora erano passate sei settimane, e si trovava ancora lì.
La sua famiglia, che all’inizio aveva spinto perché fosse lasciato libero, aveva cambiato atteggiamento, di fronte alla generosa offerta economica della federazione sportiva, ed ora gli raccomandava di aspettare e di portare pazienza.
«Domani mattina voglio tornare a casa!» Affermò deciso il ragazzo rivolgendosi al dottore che dopo la solita visita, stava prendendo appunti sul proprio notes.
«No, non si può!» Rispose il medico alzando lo sguardo sopra il blocco ed aggiungendo: «Domani verrà a visitarti il dottor Frietz. Vuole verificare una sua teoria sulla correlazione tra il colore del sangue e…»
Il medico aveva continuato a parlare, ma Tom aveva subito smesso di ascoltare. Era inutile parlare con lui. Questa sera avrebbe chiesto alla madre di poter uscire e di aiutarlo a mandare al diavolo, tutti gli esperimenti cui era sottoposto.
«Suvvia Tom, devi avere ancora un po’ di pazienza. Ci hanno assicurato che nel giro di un paio di settimane, sarai dimesso e che…»
«Mamma io non ne posso più di stare qui dentro a fare il fenomeno da baraccone.» Aveva replicato lui con i lucciconi agli occhi.
«Stai tranquillo. Ormai hanno quasi finito di studiarti. Ancora quindici giorni, poi potrai uscire, in tempo per partecipare ai trias di Chicago.»
«Io non voglio più correre! Voglio solo tornare a casa.»
«Non vuoi più correre?! Non dire assurdità, tu diventerai l’atleta più grande di tutti i tempi, vincerai le olimpiadi a mani basse…»
«Non m’interessano le olimpiadi!»
«Dio ti ha dato un dono incredibile. Tu hai il dovere di sfruttarlo fino in fondo e di…» La donna si bloccò un momento permettendogli di interrompere.
«Di guadagnare altri soldi.»
«Beh, si! Lo sai anche tu che non abbiamo mai navigato nell’oro. Tuo padre ed io abbiamo sempre fatto di tutto per te ed è la prima volta che ti chiediamo di fare qualcosa per noi.»
Tom non aggiunse altro e sembrò rassegnarsi. Salutò la madre e si sdraiò sul lettino voltando la schiena alla telecamera che lo riprendeva giorno e notte. Sfilò da sotto il cuscino, una lametta, e senza esitare si recise le vene. Il sangue chiaro come l’acqua sgorgò lentamente bagnando le lenzuola. Attese alcuni minuti, poi con le ultime forze rimaste si voltò e rivolse i polsi tagliati verso la telecamera.
Immediatamente, una sirena diede l’allarme e riuscì a sentire avvicinarsi i passi dei medici di servizio.
«E adesso, fatemi una trasfusione.»

l'equivoco.

l'equivoco

Camminavo con passo incerto per la mia strada, quando incontrai un tipo strano.
«È il tuo giorno fortunato…» mi disse allungandomi tra le mani un biglietto.
Si trattava di un foglietto con una serie di sei numeri. Poi, si allontanò senza voltarsi.
Decisi che avrei giocato quei numeri. In fondo, il massimo che avrei potuto perdere, sarebbe stato l’importo della giocata.
Consegnai la schedina compilata, pagai e ritirai lo scontrino, pochi minuti più tardi. Ho infilato il tagliando nella tasca dei pantaloni e sono tornato alle mie faccende.
Non ci pensavo più. Ieri sera, quando sul televideo ho appreso di aver vinto, quasi non riuscivo a credere ai miei occhi: ero diventato miliardario.
Quello strano signore che, ora n’ero certo era Dio, aveva ascoltato le mie preghiere e mi aveva fatto vincere.
Ho verificato più volte la corrispondenza dei numeri scritti sul mio tagliando con quelli riportati dal televisore. Non vi era alcun dubbio: avevo vinto.
Non potevo stare con le mani in mano. Mi sono infilato il giubbetto e sono uscito a cercare il mio benefattore: il mio Dio.
L’ho ritrovato nello stesso punto in cui mi aveva dato il foglietto.
«Non so come ringraziarti.»
«Solo per averti dato il numero di cellulare di Brenda?» mi ha detto lui sorridendo.
«Ma quale Brenda?! Ho giocato i tuoi sei numeri al lotto ed ho vinto…» Replico io mettendogli davanti al naso il prezioso pezzo di carta.
L’uomo cambia radicalmente umore. Tira fuori la pistola e mi obbliga a consegnargli il foglietto con la vincita. Mi assicura che non esiterebbe a spararmi qualora mi mettessi ad urlare o se solo provassi a rivolgermi alla polizia.
«Il mio scopo era solo quello di trovare dei clienti per la ragazza che lavora per me. Tu hai voluto strafare… molto meglio così.»
Si allontana di corsa.
Non lo rivedrò mai più.

la stanza numero 27

la stanza 27
«Odio le costrizioni.»
«Che ne sanno, loro, i dottori di cosa voglio, cosa provo, cosa sente il mio corpo stanco...»
I neon, con la loro luce fredda ed artificiale sono ancora accesi nella camera numero 27 del Memorial Hospital.
Lo sono sempre stati. Nessuno dei tanti infermieri che si sono alternati al mio capezzale, si è mai premurato di spegnerli. Sono sicuri che non faccia differenza.
“Coma irreversibile” aveva sentenziato il dottor Moore senza neppure abbassare la voce per evitare che il malato potesse sentire e rimanere impressionato.
È una prassi normale considerare gli ospiti della camera 27 un’entità astratta più simile ad un fantasma che ad un essere umano. La camera 27, era considerata ormai come l’anticamera dell’inferno, un luogo di transizione tra la vita oltre la porta d’ingresso, ed il buio della morte sempre pronto a prendere il sopravvento.
“Cosa vuole che le dica signora?! Forse sarebbe stato meglio se quel pirata lo avesse ucciso sul colpo.” Aveva commentato il dottor Moore, con la solita schiettezza.
Elena, con gli occhi pieni di lacrime non lo aveva intenerito: “In quel modo sarebbe scivolato via senza soffrire, così invece a meno di un miracolo rimarrà sempre in questo stato vegetale.”
Lei era corsa via uscendo e lasciandolo solo con la paura per quello che aveva appena appreso.
“Che brava attrice! Chiunque vedendola in quelle condizioni, avrebbe finito con il credere che fosse realmente disperata.”
“Chiunque non sapesse che aveva una storia con un altro uomo, le avrebbe creduto.”
Avrebbe finito per crederlo anche James, se solo l’avesse potuta vedere così affranta. Se solo, avesse potuto voltare la testa per guardarla negli occhi.
Invece, era costretto in quella posizione a fissare ad occhi semichichiusi il soffitto della camera.
Tutto, avrebbe potuto essere differente se, quella sera, James fosse stato costretto a guardare fisso di fronte a se. Allora però, non vi era alcun problema né paraocchi ad impedirgli di voltare lo sguardo e vedere Elena in macchina con un altro. Niente lo impossibilitava a vedere quello che succedeva sulla macchina e scoprire che la moglie aveva una seconda vita. L’aveva vista abbracciarsi a lui e baciarlo, prima di scendere e correre alla fermata dell’autobus. Una corsa di una sola fermata, prima di scendere come tutte le sere davanti a casa, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Confuso James, con il cuore gonfio si era sporto troppo invadendo la carreggiata ed era stato centrato in pieno da un furgone. Al dolore morale si era subito aggiunto quello fisico, e l’impossibilità di muoversi e di comunicare con chiunque.
Era stata dura all’inizio, vedere Elena al proprio capezzale senza poterle dire nulla, senza poterla accusare senza poterle fare niente.
Non poteva capire, non n’aveva la possibilità di farlo, per quale motivo lei stesse continuando a venire a trovarlo. Forse, senso di colpa, forse un rigurgito d’amore… pensava che forse avrebbe potuto perdonarla, dimenticarsi di quello che era successo e ricominciare da zero.
Poi, tutto di colpo si era chiarito.
«Si, amore, sono ancora qui in ospedale da lui. Ne ho ancora per un’ora, poi sarò da te!» Aveva detto la donna rispondendo al telefono, aggiungendo:
«… dai non essere ridicolo! Geloso di chi? Di questa larva umana?» Aveva cinguettato dolce.
La rabbia aveva invaso James scuotendolo come una scarica elettrica. Quella che era stata una semplice sensazione, ora si stava dimostrando realtà: riusciva a muoversi.
Aveva dovuto aspettare solo qualche giorno. Aveva atteso che lei fosse entrata nella camera e che come sempre avesse chiuso la porta. Poi si era alzato di scatto, mentre lei impallidendo lasciava cadere la borsa. Elena come se avesse visto un fantasma, era rimasta immobile senza parlare, quando il marito le aveva messo le mani al collo stringendo sempre più forte. Era caduta a terra priva di vita, con l’espressione di sorpresa stampata per sempre sul volto.
Senza perdere tempo, James era tornato a letto. Immobile con gli occhi semichiusi a fissare il soffitto.
«È ancora presto per svegliarmi. Prima o poi però, un miracolo potrà capitare nella stanza 27.»

mercoledì 10 marzo 2010



quello che ci vuole per vincere...

neanche fossi Beethoven

"Prima dell'alba il cielo si capovolse. Orione scintillava nell'oscurità, in mezzo alla pietraia, specchiandosi nell'acqua di un piccolo lago senza contorni. Poche stelle palpitavano nel cielo buio, liberate di tanto in tanto da nuvole invisibili."
Perché questa profonda tristezza. Perché anche Orione non riesce a comprendere il vuoto che sento dentro di me e non vuole aiutarmi? Proprio lui, che il destino confinò lassù tra le stelle con il solo vantaggio di essere rimirato dall’amata Artemide. Perché, non vuole ricordarsi di quando era innamorato e pronto a tutto per la sua amata.
Sono arrivato in questo posto solo alle quattro di mattina. Alla stazione ieri hanno cercato di persuadermi dal viaggiare di notte con questo tempo, hanno provato perfino spaventarmi con delle storielle sul bosco, ma non sono riusciti a fare altro che accrescere la mia premura di arrivare. Non li ho ascoltati ed ho avuto torto.
La mia carrozza si è sfasciata come un fuscello sulla strada che abbiamo percorso, e mi ha lasciato a piedi qui, davanti a questo lago che serve solo ad accrescere la mia ansia ed a raccogliere le mie lacrime. Un incidente. Ma come avrei potuto non affrontare questo viaggio, come avrei potuto rimandare ad un altro giorno il momento in cui ti avrei incontrata.
Abbiamo mandato un messaggero avanti a portarti una mia lettera, sacrificando uno dei cavalli e con lui, l’ultima possibilità di rimettermi in viaggio prima dell’arrivo dei soccorsi. Se solo la mia schiena non fosse così malandata, se solo avessi avuto un poco più di quella salute che invece si affanna a lasciare il mio povero corpo, sarei salito io sulla groppa di quel cavallo e sarei arrivato in qualsiasi modo fino a te.
Ora invece mio angelo, sono costretto a stare qui a rimirare il povero Orione, inseguito ancora da quel malefico Scorpione, come se Apollo non avesse ancora appagato la sua sete di vendetta o semplicemente d’invidia.
Non so ancora dove alloggerò domani, ma comunque un posto varrà l’altro, se non potrà essere vicino a te.
Perché provo ancora questa profonda angoscia, anche se sono certo che presto o tardi sarò da te, uniti finalmente tu per me, ed io per te. Forse perché a parlare è la necessità di essere insieme, ma può durare un amore senza questi sacrifici? Può forse cambiare la situazione visto che tu non sei interamente mia ed io non sono completamente tuo? Devi avere fede e dare un po’ di pace al tuo animo per ciò che deve essere.
Vedo dietro di me il postiglione che si accanisce inutilmente su quella maledetta ruota che ha ceduto. Forse sta maledicendo la mia insistenza per aver voluto affrontare questo viaggio. Lui, credo che non possa comprendere la mia ostinazione, ed è arrabbiato solo perché, non ha potuto dormire ed invece si è preso un acquazzone e tanto freddo. Oppure, perché sarebbe voluto arrivare prima dell’alba, e riuscire a trovare ancora qualche taverna aperta. Non può comprendere il mio stato d’animo, la profonda ferita che non mi fa sentire né il freddo né l’umidità.
Ci sono degli attimi che sembrano eterni, altri in cui il tempo per raccontarti i miei pensieri mi sfugge dalle dita. Pensieri sulla mia vita senza di te. Momenti in cui, ogni parola sembra inadeguata a farti comprendere quello che tu sei per me, e quel che io vorrei essere per te, e poi… altri attimi in cui il cuore trabocca di desiderio e nei quali una parola sarebbe solo superflua. Confido però negli Dei. Noi abbiamo il solo dovere di amarci, saranno loro a dover provvedere a lenire questo struggimento che ci divide ma unisce in questo sottile dolore e desiderio. Lo so, che Loro mi hanno già messo a dura prova privandomi di quel senso, l’udito che, sviluppato più di chiunque altro ora mi costringe a questa vita, come se avessi un moncherino al posto della mia mano destra. Però, voglio credere che lassù non ci siano solo delle stelle ad illuminare notti come questa, ma che ci sia qualcuno che si ricordi di me e di te, mia Amata Immortale.
Perché questo DEVE ESSERE.

l'appuntamento

La pesante Ford grigia si accostò al marciapiede sfiorandolo lievemente con la ruota anteriore destra. Marco, prima di spegnere il motore aprì la portiera per valutare il corretto posizionamento del mezzo, poi, richiuse e finalmente tolse le chiavi dal cruscotto.
Si fissò per un lungo momento nello specchietto retrovisore. C’era qualche piccola ruga sotto gli occhi, accentuata forse da una notte con poco sonno, ma il suo sguardo era quello di sempre. Quaranta anni c’erano tutti, ma la sua espressione era esattamente la stessa che aveva venti anni prima.
La sua attenzione si rivolse allora all’orologio digitale, che segnalava le 19,30: era ancora una volta, arrivato in anticipo. Era come un vizio per lui, quello di presentarsi ad un appuntamento con largo anticipo. Una mania, cui non si era mai sottratto e che non riusciva proprio a vincere. La madre lo aveva ammonito a riguardo, scherzandoci sopra molti anni prima:
«Vai sempre troppo presto! Se continui così, finirai per arrivare prima anche all’appuntamento con la morte.»
Non aveva mai creduto alla macabra profezia della mamma, ed aveva sempre seguitato a cedere alla sua abitudine senza mai curarsene.
Cercò dentro il cassetto portaguanti il proprio cellulare e senza esitare se lo depose nella tasca del cappotto; si guardò intorno brevemente e scese dal veicolo. Fuori era già calata la sera ed al buio si era associata anche una leggera gelida brezza. Marco chiuse a chiave la macchina e si avviò lungo il marciapiede. Camminava con il passo indolente di chi certo di essere in anticipo era conscio che avrebbe dovuto aspettare a lungo.
Si aggiustò il bavero del cappotto, per proteggersi un poco dal freddo che stava cominciando a diventare un po’ più pungente ed accelerò un poco il passo. Raggiunse in breve tempo un bar, sulla cui vetrina di vetro martellato era esposta la scritta:

“DA GIORGIO, LA MIGLIOR BIRRA IN CITTA’”

Marco guardò per un lungo attimo all’interno, cercando di scorgere qualcosa attraverso il vetro opaco, poi salì il gradino che lo separava dalla porta ed entrò. A quell’ora, non c’era certo il pienone che avrebbe riempito il locale, di lì a qualche ora, così ebbe la possibilità di scegliersi con cura il tavolino cui andare a sedersi. Si accomodò ad un tavolo laterale un po’ defilato, dal quale però, poteva tenere d’occhio l’ingresso. Appoggiò il cappotto allo schienale di una sedia e si sistemò su quella a fianco.
Dietro il banco, il proprietario, vestito di un grembiule piuttosto sudicio, stava asciugando i bicchieri ed aveva seguito con lo sguardo l’ingresso di Marco.
Poco lontano una coppia di giovani ragazzi stava discutendo animatamente, con davanti un boccale di birra quasi terminato ed una tazza di te in pratica intatta. La ragazza in particolare sembrava essere piuttosto seccata da quello che il compagno le stava dicendo. A volte si bloccava e pareva sul punto di alzarsi e di andarsene via, poi riprendeva a parlare e lasciava intendere che difficilmente lo avrebbe fatto. Più in fondo, in un’altra saletta due uomini stavano giocando a bigliardo, seminascosti dalle volute del fumo delle loro sigarette, riconoscibili più che altro dalle imprecazioni per un tiro sbagliato, o per un colpo particolarmente fortunato dell’avversario. Un vecchio Juke box dall’aria un poco malconcia, completava l’arredamento del bar; un ambiente sicuramente retrò, che a dispetto dello stile sicuramente sciatto era divenuto uno dei posti più frequentati della città.
Giorgio, il proprietario del locale si avvicinò al tavolo con una lista ricoperta di similpelle nera. Fece il gesto di consegnarla ad Marco, che invece precedendolo ordinò una Sprite con limone.
«Amico, hai la faccia di uno che mi avrebbe chiesto un whisky.» Esordì l’uomo annotando con una matita l’ordinazione su un minuscolo e sciupato block notes.
«Non ancora!» Gli sorrise Marco, aggiungendo «è un po’ troppo presto per cominciare a bere.»
Il barman chiese se voleva qualcosa da mangiare, poi un poco deluso si allontanò in direzione del banco.
Marco diede una rapida occhiata al suo orologio e si accorse che mancava ancora un quarto d’ora, all’arrivo di lei. Prese il telefonino e lo osservò, sperando forse di trovarvi un messaggio. Qualcosa comunque che lo avrebbe aiutato ad impiegare il tempo che gli rimaneva da aspettare. Non c’era però nulla. E non avrebbe potuto esserci, in quanto non aveva udito alcun suono dal momento che se lo era messo in tasca. Ripose il cellulare e si accomodò meglio sulla sedia.
La ragazza del tavolino accanto aveva appena alzato la voce:
«Ti ho detto di no! Lo vuoi capire una volta per tutte.»
Aveva un aspetto triste e sembrava impegnata in una lotta impari per riuscire a trattenere quelle lacrime che le stavano gonfiando gli occhi, pronte a tracimare da un momento all’altro.
Lei, incrociò per un breve attimo i dolcissimi occhi con quelli di Marco che istintivamente aveva sollevato la testa, attirato dalle frasi della giovane. Aveva un aspetto triste e deluso, che destò in lui un poco di pena. Poi, lei distolse lo sguardo e senza più dire una sola parola chinò il capo sopra la tazza. Sicuramente aveva perso la sua personale battaglia contro il pianto e probabilmente qualche lacrima si aggiunse al latte di quel te, che nessuno avrebbe più bevuto. Poco dopo, infatti, si alzò raccogliendo borsetta e cappotto si allontanò dal tavolo.
Sicuramente stava ancora piangendo, mentre si stringeva il cappotto e si preparava a lasciare il bar. Marco ebbe per una frazione di secondo l’impulso di alzarsi e di fermarla, mentre il ragazzo che era seduto con lei sembrava preoccuparsi solo della birra da finire. Rimasero tutti e due a vederla uscire sbattendo la porta, senza fare nulla.
Marco rimase a fissare la porta di vetro martellato. Gli dispiaceva quello che aveva appena visto, anche se non avrebbe avuto alcuna ragione per farlo. Non conosceva la ragazza, e sarebbe forse potuto esserne il padre, ma si era lo stesso intenerito nel vederla soffrire.
L’arrivo dell’ordinazione lo distolse dai suoi pensieri.
Giorgio appoggiò il bicchiere sulla tavola e si allontanò ignorando il grazie del cliente.
L’attenzione di Marco si concentrò allora su di un piccolo semino di limone all’interno della bevanda. Questo appoggiato sul fondo si stava riempiendo di minuscole bollicine, e piano piano cominciava a salire fino alla superficie. Una volta giunto a contatto con l’aria, lo scoppio delle microbolle lo fece precipitare giù. La stesa scena si ripropose davanti all’uomo più volte, con cadenza regolare.
Il barista lo guardò mentre fissava il bicchiere senza capire che cosa ci fosse di così interessante da vedere, ed alzò lo sguardo al cielo. Probabilmente malediceva la sorte che gli aveva mandato un cliente così strano e così poco propenso a spendere. Uno che magari, sarebbe rimasto ore a rimirare la sua bevanda anziché consumarla ed ordinarne un’altra.
Marco invece, sembrava essere affascinato dal lento fenomeno che gli si stava presentando davanti agli occhi.
Fu distratto solo un attimo dal ragazzo, che dopo avere appoggiato rumorosamente il boccale di birra ormai svuotato sul tavolo, si era alzato e diretto verso il banco. Aveva parlottato velocemente con il barman ed aveva pagato. Marco si disinteressò di lui e riprese a guardare il semino. Quello che stava vedendo, gli ricordava tantissimo la sua vita: i momenti felici in cui invisibili bolle lo avevano sollevato fino al cielo, e quelli tristi in cui si era sentito sprofondare fino ad avere il sedere per terra. Associava l’ascesa del piccolo semino al momento in cui aveva conosciuto la sua ex moglie, al corteggiamento ed al bel periodo che aveva condiviso con lei. Quando era abbastanza un sorriso per sentirsi in paradiso, quando era sicuro di avere tra le mani le chiavi segrete del mondo. Ripensò a quando si era sposato con tutti gli amici, il papà che ora non c’era più e che gli aveva lasciato un vuoto incolmabile. Poi, a quelli più tristi, come rientrare a casa dopo un incidente stradale, e trovare lei a letto con un altro uomo. Quando le chiavi segrete del mondo erano diventate buone solo per aprire le porte dell’inferno. Senza neppure poter puntare sul conforto di qualcuno che aveva sempre considerato amico, e che invece non aveva esitato a fare l’amore con sua moglie.
Ripensò a quando la sua ditta lo aveva premiato come miglior dipendente dell’anno, regalandogli diplomi medagliette e qualche soldo per il successo ottenuto sul lavoro. Poi, con l’arrivo di un periodo di recessione, lo avevano messo prima da parte e poi accompagnato alla porta con un finto discorso di circostanza.
«Lei è un dipendente molto valido. È con la morte nel cuore che siamo costretti a fare a meno di lei. Se dovesse avere bisogno, non esiti a chiamarci…» gli avevano detto spalancando la porta che lo avrebbe portato in mezzo ad una strada.
Quante volte aveva dovuto sopportare quegli alti e bassi della vita. Riusciva solo a ricordare solo quelli più evidenti, quelli in cui a volte sembrava venire meno la volontà di continuare e l’idea di lasciarsi andare era di sicuro la via più facile da seguire.
Il suo amor proprio, gli aveva sempre imposto di non arrendersi e di cercare anche di fronte alle difficoltà più enormi, la forza di reagire e di riemergere. E Marco, tutto sommato, non aveva mai smesso di volersi abbastanza bene. Abbastanza da riuscire a non sprofondare ancora più in basso.
Le 19,55! Ormai era solo questione di minuti. Solo cinque volte il giro della lancetta lunga e finalmente la avrebbe conosciuta. Lei, la donna che gli aveva in parte riportato il sorriso, che era riuscita a fargli ritornare la voglia di vivere e di ridere, che gli aveva fatto credere che sarebbe stato ancora possibile... possibile qualcosa, che non riusciva neppure a confessare a se stesso.
Era successo tutto qualche settimana prima. In un momento di particolare depressione e solitudine, uno di quelli che si era convinto di essersi lasciato alle spalle per sempre dopo aver assaporato a pieni polmoni il soave profumo della felicità e poi, esattamente come il semino di limone senza alcuna bolla pronta a sorreggerlo era precipitato giù. E questa volta in un modo brusco, che non avrebbe lasciato molte possibilità di risalita.
Poi, lentamente Marco se ne era fatta una ragione, era stata dura ma alla fine se ne era fatta una ragione e senza mai perdere di vista quel briciolo di ottimismo necessario per permettergli di riprendersi. Era stato allora che cedendo alle insistenze di un suo collega aveva provato ad iscriversi ad una chat line. Non era certo convinto che quella potesse essere la via giusta, per conoscere una donna. Anzi, non era neppure sicuro di desiderare davvero trovarne una. Era stato ferito, ed in qualche modo temeva che la cosa potesse ripetersi. La solitudine però, aiutata dalla curiosità lo avevano aiutato a vincere ogni remora e ad iscriversi.
Aveva preso la chat come un gioco. Un modo semplice e rapido per mettersi in contatto con donne sconosciute, e per comunicare con loro magari sfogando con loro le proprie frustrazioni. Molto spesso diventando l’amico sconosciuto o il confidente dei loro problemi, delle loro storie andate a male. Forse, in un angolo remoto della sua mente, si era convinto che sarebbe stato possibile tramite quel mezzo così inusuale, che sentiva così poco suo, riuscire a conoscere una persona speciale. Quella che gli avrebbe di nuovo, faticava persino a confessarlo a se stesso, fatto perdere la testa. Lo sperava, anche se dentro di se si sentiva sicuro che non sarebbe mai più successo.
Certo non si svegliava più di notte, in un letto freddo e troppo grande, dove neppure con una decina di coperte avrebbe trovato un po' di tepore. Si era abituato ad un silenzio nella casa così diverso da quello solito che lo aveva accompagnato per tantissime notti. Un silenzio, in cui doveva fare a meno del ritmico respiro di lei, sdraiata al suo fianco. Con il tempo si era anche abituato all’idea, che chiudendo la porta la sera non avrebbe lasciato nessuno fuori. Ma da questo a sentirsi pronto per ricominciare, ne passava.
Gli restava il nuovo gioco. Poi, si convinse che forse non sarebbe stato poi così folle affidarsi a quello, e lasciarsi guidare da quello per andare avanti.
Aveva conosciuto virtualmente lei, un po’ per caso. Lo aveva affascinato il messaggio che la donna aveva associato al proprio profilo, perché rispecchiava ameno in parte lo stato d’animo in cui si sentiva.
“Sono una foglia aggrappata ad un ramo in attesa di una refola di vento mi aiuti a staccarmi ed a lasciarsi andare. A lasciarsi trasportare verso nuovi orizzonti.”
Per Marco, che ultimamente aveva avuto come unico orizzonte, la punta del proprio naso era stato confortante trovare la risposta della donna tra i messaggi della chat. Ancora più gratificante, vedere che lei continuava a scrivergli e voleva sapere sempre più da lui: la condizione essenziale per potersi conoscere.
I brevi messaggi iniziali, ricchi di convenevoli, avevano lasciato presto il posto a domande un po’ più mirate. Poi, finalmente la decisione di rompere gli indugi e di conoscersi di persona.
Entrambi avevano accettato il reciproco invito senza alcun indugio. Si erano premurati di studiarsi nell’animo, senza badare a perdere tempo per focalizzarsi sull’aspetto fisico. Marco, non le aveva neppure proposto uno scambio di fotografie. Non gli interessava l’aspetto fisico di lei, anzi era sicuro che lei gli sarebbe piaciuta.
Erano le venti e due minuti.
Diede ancora una rapida occhiata al bicchiere, dove il semino di limone ormai era rimasto sul fondo abbandonato del tutto dalle bollicine che ormai si erano disperse nell’ambiente, sgasando la bevanda. Se lo portò alla bocca e, con buona pace di Giorgio finalmente iniziò a bere.
Dietro la porta di vetro martellato, comparve una sagoma scura. Una donna, dopo qualche esitazione aveva afferrato la maniglia e stava aprendo.
Marco non aveva il minimo dubbio: Lei era arrivata e stava per raggiungerlo…

Jacob

Dalla finestra socchiusa entravano leggere folate di vento che gonfiavano le tende di mussola bianca. Con la brezza tiepida mi sembrava di percepire profumi di primavera: teneri annunci di nuova vita, e di dolce rinascita.
Io, invece, mi sentivo morire.

Il movimento delle tende mi riportava alla realtà, ad una realtà che non mi piaceva ed alla quale non riuscivo sottrarmi.
Era successo lo scorso anno. Ricordavo la folle corsa in macchina, la curva presa a velocità troppo elevata e l’uscita di strada. Ricordavo alla perfezione il freddo contatto con l’acqua del mare e la trappola mortale dell’abitacolo.
Ero certo di dover morire. Poi, mi era apparso quel maledetto. Lo avevo trovato comodamente seduto sul sedile di fianco ad osservarmi mentre cercavo con disperazione di aprire la portiera.
«Mi chiamo Jacob…» mi aveva detto.
«Aiutami ad uscire, stiamo annegando!»
«Vendimi la tua anima e vivrai in eterno!»
Ero rimasto perplesso. Lui mi fissava e sembrava rinnovarmi la sua offerta.
Avevo solo pochi secondi per decidere e pochissimo da perdere.
«La tua anima! E ti tirerò fuori di qua.»
Mi aveva incalzato quello strano figuro ed io… io avevo annuito allungandogli la mano.
Avevo provato una specie di scossa elettrica al contatto con la sua pelle e credo di aver perso i sensi per quel motivo.
Mi ero ritrovato disteso sugli scogli, bagnato ma miracolosamente salvo. Questo almeno era quello che avevo creduto. Poi, Jacob mi si era avvicinato e mi aveva parlato.
«Hai scelto di accettare la mia proposta. Non sei morto la sotto, e potrò fare in modo che tu non debba morire mai più. In cambio di questo, voglio solo il tuo aiuto.»
Lo ascoltavo estasiato. Gli dovevo la vita e lo avrei ripagato in qualsiasi maniera. Nel giro di pochi minuti la mia vita era completamente cambiata ed era come se mi fossi trovato davanti Dio in persona. E Dio, avrebbe chiesto in cambio solamente il mio aiuto: come avrei potuto rifiutarglielo.
«La prossima primavera, dovrai mettere per me una bomba dentro la stazione della Metropolitana.» Mi aveva detto gelandomi il sangue nelle vene.
«Tu devi essere pazzo…» Gli avevo sorriso incredulo. «Io non farò mai una cosa di quel genere.»
«Tu lo farai! In caso contrario ti ritroverai nella stessa situazione da cui ti ho salvato poco fa.»
Aveva assicurato quello strano individuo sorridendo in modo maligno. Il suo sguardo era cattivo più che mai ed ero certo che non stava bluffando.
“Vedremo…” avevo pensato. In quel momento, l’unica cosa che desideravo era levarmi da lì e da quell’inquietante individuo che avevo di fronte.
«Lo farai!» Mi aveva annunciato lui allontanandosi tra gli scogli.
Non lo avevo più rivisto. Avevo ripreso la vita di tutti i giorni cercando di fare in modo di dimenticare quello che mi era successo in fondo al mare. Mi ero convinto che era stato solo un incubo: l’incubo di una persona che sta per morire.
Poi, questa mattina presto me lo ero trovato davanti sulla porta di casa.
«Devi farlo questa sera!» Mi aveva annunciato porgendomi un pacco.
«Che cosa vuoi da me?»
«Tu sai quello che voglio e soprattutto sai quello che devi fare. La bomba deve scoppiare questa stessa sera.» Aveva detto con una calma assoluta
«Se lo farai, da domani potrai vivere molti altri anni senza dover fare altro. Poi ti farò rinascere ancora e vivere una nuova vita…»
«…e se non lo facessi?»
«Ti ritroveresti in fondo al mare, proprio come quando ci siamo conosciuti. Ma io so che lo farai.»
Sono rimasto solo, inebetito con quel maledetto pacco tra le mani.
“Non lo farò! Non potrei vivere poi con il rimorso di avere provocato la morte di tante persone.” Avevo pensato mentre un brivido mi era corso lungo la schiena, ricordando le sensazioni provate quando ero rimasto rinchiuso dentro la macchina senza via di scampo.
«Non posso farlo!» mi sono detto.
Poi, un tremendo boato proveniente dalla stazione, ha mandato in frantumi i vetri della mia finestra.

il mio silenzio

Dalla finestra socchiusa entravano leggere folate di vento che gonfiavano le tende di mussola bianca. Con la brezza tiepida mi sembrava di percepire profumi di primavera: teneri annunci di nuova vita, e di dolce rinascita.
Io, invece, mi sentivo morire.

Il silenzio che si era creato in camera, mi metteva a disagio.
Avevo sempre apprezzato il silenzio. Mi piaceva quando la notte dopo essermi svegliato rimanevo sdraiato sul fianco a guardarla; a seguire con gli occhi le armoniose forme del suo corpo ed a sentirla respirare, con il rumore sommesso del fiume a fare da sottofondo.
Adesso che lei se n’è andata, nulla sarebbe più stato come prima. Adesso, quel silenzio, fatto di tante piccole voci, che la casa suo malgrado si lascia sfuggire, come il ticchettio dell’orologio a pendolo, il brontolare del motore del frigorifero o gli scricchiolii delle pareti di legno, mi suona così estraneo.
È strano come a volte, anche il silenzio può essere popolato di suoni che lo fanno diventare opprimente e che lo rendono troppo simile al presagio di una minaccia incombente.
Il vuoto ereditato senza Elena, non è solo quello che ha lasciato nella parte destra di un letto matrimoniale decisamente troppo grande solo per me. È soprattutto il rumore del suo dolce respiro di notte, quello che riusciva a coprire tutti gli altri rumori ed a cancellare ogni mia ansia.
Rivolevo quel silenzio. Rivolevo il mio silenzio.
Elena se ne é andata. Mi ha lasciato dopo tanti anni d’amore e di convivenza per fuggire con un altro. Di tutto quello che c’è stato tra noi, non rimane che un piccolo biglietto, due righe scarne lasciate sullo scrittoio:
“Tra noi è finita. Mi dispiace tanto, ma ora c’è un altro nella mia vita.
Per questo ti lascio e corro a raggiungerlo…”

Mi sono alzato ancora. Non posso certo riuscire a dormire in queste condizioni. Ho ripreso tra le mani quel maledetto foglietto e provo a rileggerlo. Due righe. Due sole righe, non bastano a cancellare un amore che durava da anni. Penso di meritarmi qualche cosa più di questo. Sì, di sicuro merito qualcosa di più.
Per questo prendo la sua stilografica, e riprendo a scrivere:
“Ti ho amato tanto. Non cercare più di me.”

Penso che così è più giusto. Si credo proprio che così vada un po’ meglio.
Appoggio la penna allo scrittoio e mi commuovo. Due lacrimoni mi riempiono gli occhi e quasi m’impediscono di vedere, ma ritrovo la stilo e senza esitare firmo.
“Tua Elena.”

Spengo la luce e mi dirigo alla finestra. Il profumo della primavera è già qui, ma non sono certo dell’umore giusto per godermelo. Allora sposto le tende e lo spettacolo familiare del fiume mi si presenta davanti. La luna è ancora alta ed illumina la barca vicino al pontile. La fisso e rivedo mentalmente lei che esce dall’acqua con addosso solo il suo costume bianco. La rivedo con la pelle d’oca e con i due capezzoli turgidi per il freddo. La desidero: esattamente nello stesso, modo in cui la desiderai la scorsa estate. Solo che, allora fu possibile abbracciarla e portarla sul divano dove facemmo l’amore.
«Perché mi hai lasciato? Perché… te ne sei andata?»
Il mio urlo disperato nella notte sortisce il solo effetto di paventare due ignari uccelli appollaiati sulla grondaia della mia casa.
«Perché?» Mormoro sottovoce, lasciandomi cadere seduto per terra vicino alla finestra.
La luce della luna ora filtra nella stanza e mette in risalto la figura di Elena seduta sulla poltrona vicino al letto. La guardo disperato, aspettandomi forse una risposta da lei.
È bella! Lei, anche con lo sguardo stravolto dal dolore e con i lineamenti modificati in una maschera di terrore, riesce ad essere bella. Non può rispondermi: quella sciarpa rossa legata stretta intorno al collo, non le permette di farlo. La stessa sciarpa che quella sera le ho stretto forte, le impedisce di respirare.
Quella stessa sciarpa che, mi ha portato via oltre a lei anche il mio silenzio.

il calcio che non c'è più

Dedicato a tutti quelli che hanno vissuto il calcio vero...
...che oggi non c'è più!!!!


Noi che...finivamo in fretta i compiti per andare a giocare a pallone sotto casa;

noi che...costretti alla regola di "portieri volanti" o " chi si trova para";

noi che..."portieri volanti" e..."segnare da oltre centrocampo vale?" - Vale...vale tutto!;

noi che...quando si facevano le squadre, se venivamo scelti per primi ci sentivamo davvero i più bravi, i più importanti;

noi che...l'ultimo che veniva scelto era sicuramente destinato ad andare in porta;

noi che...avevamo sempre un soprannome passibilmente infamante ma nessuno si offendeva;

noi che...chi arriva prima a dieci ha vinto;

noi che...mentre facevamo finta di non sentire il richiamo della mamma quando incombevano le tenebre, c'era sempre qualcuno che diceva: "chi segna l'ultimo vince" incurante del punteggio che magari era in quel momento 32 a 1;

noi che...abbiamo vissuto con terrore l'epoca delle "Espadrillas" con le quali ai piedi non si poteva giocare a pallone;

noi che...se avevamo ai piedi le Adidas Tampico ci sentivamo piu' forti di Pelè;

noi che...invece avevamo ai piedi le Tepa Sport;

noi che...il pallone di cuoio sapevano come era fatto perché lo vedevamo in Tv esclusivamente ad esagoni bianchi e neri;

noi che...capivano il senso della seconda maglia quando in Tv bianco e nero mandavano le immagini del derby Milan-Inter;

noi che...o il SUPER TELE (in mancanza d'altro) o l'ELITE (lo standard) o il TANGO DIRCEU se andava di lusso o nei giorni di festa;

noi che... non potevamo sederci sul pallone altrimenti diventava ovale;

noi che...il proprietario del pallone giocava sempre anche se era una schiappa e non andava nemmeno in porta;

noi che...anche senza la traversa non avevamo bisogno della moviola per capire se era goal. "Goal o rigore" metteva sempre tutti d'accordo;

noi che...al terzo corner è rigore;

noi che..."rigore seguito da goal è goal";

noi che..."siete dispari posso giocare?" - "Eh non lo so, il pallone non è mio (nel caso in cui il pretendente fosse uno scarso)!";

noi che..."mi fate entrare?" - "Si basta che ne trovi un altro sennò siamo dispari";

noi che...riconoscevamo i calciatori anche se sulla maglietta non c'era scritto il nome;

noi che..."Una vita da mediano" (Oriali-Ligabue) era già una filosofia di vita;

noi che...il n° 1 era il portiere, il n°2 ed il n°3 i terzini destro e sinistro, il n° 4 il mediano di spinta, il n° 5 lo stopper, il n° 6 il libero, il n° 7 l' ala destra, il n° 8 una mezzala , il n° 9 il centravanti, il n° 11 l'altra punta possibilmente mancina, il n° 10 la mezzala con la fascia di capitano perché era inevitabilmente il più' bravo;

noi che...perché un giocatore entrasse in nazionale doveva fare una trafila di 2/3 anni ad alto livello;

noi che...gli stranieri al massimo 2 per squadra e li conoscevamo tutti;

noi che...dormivamo con le figurine Panini sotto il cuscino ;

noi che...quando aprivamo le bustine intonse pregavamo per non trovare triplone o quadriplone PILONI ; il 2° mitico portiere della Juve che non aveva mai giocato una partita per colpa di ZOFF;

noi che...avevamo in simpatia Van de Korput per il nome e Bruscolotti perché sembrava più vecchio di nostro padre;

noi che...il calcio in Tv lo guardavamo solo la Domenica ed il Mercoledì;

noi che...il sabato mattina eravamo terribilmente stanchi perché la sera prima avevamo visto Cesare Cadeo dopo Premiatissima;

noi che...la Domenica alle 19,30 vedevamo un tempo di una partita di calcio;

noi che...vivevamo in attesa di 90° minuto e ci sentivamo protetti dalle figure paterne di Paolo Valenti, Necco da Napoli, Bubba da Genova, Giannini da Firenze, Vasino da Milano, Castellotti da Torino, Pasini da Bologna, Tonino Carino da Ascoli, Stroppa "riporto" da Bari o Lecce;

noi che...la Stock di Trieste è lieta di presentarvi...papapà... papapà Ameri,scusa Ameri....clamoroso al Cibali" (che nella nostra fantasia era piu' famoso di Catania);

noi che..."tutta la squadra dell' Internazionale retrocede a protezione dei 16 m" (sempre Ciotti);

noi che...ci ricordiamo i festeggiamenti del n. 1.000 della Domenica Sportiva;

noi che...alla DS potevamo vedere i servizi della serie A, i goal della serie B, il Gran Premio, Tennis. Basket e la pallavolo senza doverci sorbire ore di chiacchiere per vedere 4 goal;

noi che...Galeazzi l'abbiamo visto magro;

noi che..."il piede proletario di Franco Baresi" (Beppe Viola); "Maradona ha mano cucita sotto il piede sinistro" (Gianni Brera);

noi che...andavamo all'amica del cuore di quella che ci piaceva e le chiedevamo: "Dici a Maria se si vuole mettere con me?" Il giorno dopo tornava e la risposta era sempre la stessa: "Ha detto che ci deve pensare...";

noi che...Maria ancora ci stà pensando!;

noi che...agli appuntamenti c'eravamo sempre tutti, anche senza telefonini;

noi che...oggi viviamo lontani, ma quando usciamo di casa e giriamo l'angolo speriamo sempre di incontrarci con il pallone in una busta di plastica;

noi che...oggi sorridiamo quando in Tv si inventano i più incredibili sondaggi tipo: "chi è stato il piu' forte giocatore di tutti i tempi: Pelè o Maradona?" senza considerare che di Pelè abbiamo visto sempre gli stessi 4/5 goal;

noi che...se incontriamo per strada Biscardi vorremmo investirlo;

Voi che...questo giocattolo ce lo avete rotto... brutti bastardi!

sabato 6 marzo 2010

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CAPITOLO QUATTRO

Quattro salti nella storia:

Il periodo di maggiori difficoltà per l’evoluzione del gioco fu durante l’Impero Romano. I romani non disprezzavano il nobile gioco anche se non tutti parevano in grado di parteciparvi. Nerone ad esempio aveva provato ad organizzare delle partite, non mancando però di inviare alle murene o ai leoni chiunque si permettesse di batterlo o meno che mai, di farlo perdere.
Seneca, che come vedremo è stato importante nella storia del gioco, ne fece le spese, dopo aver seccato l’imperatore con l’ostinata mania di mettergli la briscolina davanti quando questi chiamava. Di fronte all’ennesimo due di briscola giocato prima di lui, con il chiaro intento di metterlo in difficoltà fu esortato dal crudele Nerone ad abbandonare il tavolo e soprattutto a togliersi la vita.
Tacito, ci racconta la dignità con la quale il consigliere dopo essersi alzato dal tavolo abbia accettato la decisione del grande capo. Prima di recidersi le vene, volle lasciare un singolare testamento:
«A te che t’ingegni ogni volta, per cercare nuove soluzioni o trucchi per trarre profitto dalla tua sapienza e capacità, lascio in dono uno dei beni migliori che mi rimangono. Ricorda sempre: l’importanza non sta solo nella grandezza e nella potenza della tua briscola. Anche un umile due, giocato al momento giusto, può significare molto, come per me ha significato la differenza tra la vita e la morte.»
Solo anni più tardi, qualcuno riprenderà questi preziosi testi di Tacito e riuscirà traducendoli a comprendere l’importanza del testamento.
Tornando a bomba al periodo credo più difficile del gioco, è abbastanza intuitivo comprendere il motivo di tale imbarazzo.
Le famiglie erano finalmente diventate segni. Le mele erano state sostituite dai coppe, le margherite dalle daghe (diventeranno spade solo più avanti), le pere dai sesterzi (diventeranno denari o quadri molto dopo.) ed i sassi dai bastoni. Il problema però, erano semmai i numeri. Provate un po’ voi a giocare in questo modo:
«Chiamo il VII.»
«Io abbasso al IV»
«II!»
«II a LXII!»
«II a LXVII»
«Sei il solito braccinus II a LXVIII.»
«Non basta! LXIX.»
e via dicendo.
Per non parlare poi del conteggio dei punti e delle classifiche:
«Abbiamo vinto noi! XIIL più il carico di Julius fanno LIV, più il X di daghe del senatore Cagnus che vale IV fa LIX. Se ci aggiungi VIII di coppe che Sergius Appius ha fatto nella mano III, fanno LXI.»
«Comprati un nuovo Abacus. Voi avete fatto solo LVIII punti, abbiamo vinto noi..»
Oh, manco con un contabile si riusciva a cavare un ragno dal buco. Sarebbe finito sempre a randellate e a minacce di dare in pasto ai leoni gli avversari. Per fortuna il privilegio di mettere in pratica le minacce spettava al solo imperatore che in ogni modo, con cadenza quasi settimanale forniva molto materiale per il circo domenicale al Colosseo. La popolazione, ben presto cominciò ad orientare le proprie attenzioni più ai nuovi modelli di biga o alle procaci forme di qualche novella Messalina o Poppea, invece che esercitare la nobile arte del due.
Giulio Cesare invece, nonostante tutte le vicissitudini in cui si trovò invischiato e tutte le innumerevoli battaglie, non disdegnò mai di giocare qualche partita prima dei momenti che avrebbero fatto la storia dell’impero. Di carattere irruente e decisamente votato all’attacco, il grande Giulio amava osare e molto spesso vinceva partite incredibili grazie alle sue tattiche spregiudicate e ad una mentalità positiva. Si racconta che spesso, il condottiero abbia tratto buoni auspici dall’andamento delle partite decidendo di rinviare o affrettare una battaglia, confortato dal pronostico ricavato dall’esito della partita. Esattamente, nello stesso modo con cui un antico greco, avrebbe fatto recandosi ad interrogare un oracolo.
È arcinota, la partita forse più importante della sua vita, giocata alla vigilia della decisione di schierarsi contro la sua stessa Roma. Stava giocando una difficile partita sulla riva del Rubicone, quando stufato dalla continua provocazione di Pompeo Magno che si permetteva di rilanciare ogni sua chiamata, si bloccò. Ripose le carte sul tavolo e si alzò in piedi guardando al di là del fiume. Oltre il corso d’acqua c’era Roma con il suo controverso impero, alle sue spalle c’erano le sue carte con asso, tre, dieci e otto di daghe! Un segno del destino. Quel fetente di Pompeo Magno lo aveva portato fino al due a settantasette, e secondo lui stava bluffando. Sapeva però, che quella era una mano importante, se avesse vinto, avrebbe potuto riprendere a Roma il potere che nella città eterna, il governo corrotto stava cercando di togliergli. Era una decisione sofferta. Vincere però avrebbe voluto significare essere sicuro di oltrepassare il fiume e di iniziare e trionfare in una guerra civile.
«Andiamo là, dove i prodigi del cielo e l'ira dei miei nemici mi chiamano: Due a settantotto.»


«Annamo de là! ‘Ndo li prodigi der cielo e gl’infamoni me stanno a chiamà! Du a settantotto.»
Tale Caius Simplicio, addetto alle pubbliche relazioni del condottiero, un po’ duro d’orecchie e soprattutto abbastanza stronzo, riferì nel suo rapporto di avere udito specificatamente “il dado è tratto!” invece di quel “due e settantotto.” Che cazzo volesse dire “il dado è tratto,” non fu mai in grado di spiegarlo, ma in ogni caso dopo la consegna del rapporto e del diario di viaggio, quella rimase la frase ufficialmente pronunciata. Questo, nonostante esaminando il labiale con la supermoviola del dottor Aldo Biscardus, si era arrivati alla verità.
«Guesto è un vero sgub. Abbiamo le immagini in esclusiva della frase pronunciata da Giulio Cesare al momento di attraversare il Rubbicone. Vogliamo usare guesto sgub come prova televisiva, per i signori designatori. Vogliamo la moviola in gampo e Robberto Baggio in nazionale.»
L’interessato, dopo aver letto l’articolo sulla gazzetta dello sport ed avere avuto conferma su Stadio e SPQR Sportsera, aveva preferito glissare sull’argomento. Per ora, il suo personalissimo oracolo funzionava e non vedeva la necessità di rivelare ad alcuno il motivo che lo aveva spinto ad affrontare Roma.

Facendo un salto indietro, Omero racconta di una famosa partita giocata nella odierna Turchia tra personaggi di alto lignaggio della Grecia antica. L’incontro tra Achei e Troiani, fu lungo e cruento e fu vinto solo dopo anni di sofferenze dai primi. La formazione dell’Athina Dos Association, che presentava un invidiabile 2-2-6 prevedeva: Ajace Telemonio tra i pali, Agamennone in cabina di regia, ben supportato dal fratello Menelao, Ulisse come rifinitore ed il bomber Achille davanti a tutti.
Dall’altra parte il Troian Team, campione in carica nel campionato ittita, aveva fior di giocatori: il buonissimo portiere Re Priamo (famoso per un suo difettuccio, quel priamismo che ne facilitava il compito nelle parate più ardite e difficili), lo stopper Ettore di valenza internazionale predestinato al pallone d’oro secondo France football, ed il cobra Paride in attacco al fianco di Hakan Sukur.
Nonostante la forte supremazia territoriale, i greci condizionati dalla scarsa vena di Achille, pur comandando il gioco riuscirono ad ottenere innumerevoli calci d’angolo. Ettore in primis ed il padre Priamo avevano avuto buon gioco dei loro attacchi, ed anzi avevano spesso, cercato di lanciare in contropiede il perfido Paride sempre ben controllato dalle difese elleniche, capitanate dallo stopper Menelao che sembrava avere un conto aperto con lui.
Si sarebbe potuto continuare a giocare per anni ed anni senza giungere alla conclusione della partita (dopo la quale, la FIFA decise l’introduzione dei calci di rigore che ancora ci accompagnano), quando finalmente qualcosa cominciò a muoversi sullo scacchiere. Hakan Sukur atterrò da dietro Patroclo. Il fiero Achille, fino allora ombra del terrore delle aree da rigore, si avventò urlando tutta la sua ira, per sbaglio contro Ettore, credendolo l’autore del fallo generando una rissa. Ettore fu espulso ed Achille solo ammonito.
Quando la partita riprese, l’astuto Ulisse che giocava a contatto con Priamo ancora sconvolto per l’allontanamento dal campo del figlio prediletto, calò senza indugio il cavallo (la partita si giocava con carte napoletane) come gli aveva suggerito con un fugace sguardo Elena.
«Troia!» Esclamò Priamo nei confronti della donna, essendosi accorto dell’ammiccamento e sentendosi tradito. L’uomo confuso, sbagliò così a replicare e perse la finale. Questa partita, come tutti sanno verrà ricordata per il Cavallo giocato da Ulisse, e per l’appellativo poco elegante (troia) che il regnante dell’omonima città aveva voluto regalare alla enigmatica donna della sua squadra.
La storia racconta poi, come nel sottopassaggio che portava agli spogliatoi, ci furono degli scontri, nei quali il cobra Paride con un sapiente colpo al tallone mise fine anzitempo alla carriera del promettente Achille.


Ulisse che tenta di quietare il compagno di squadra dopo la rissa.


Il gioco del due provocò anche altri disguidi a Lilliput, dove il famoso fuoriclasse Gulliver, un vero gigante, si trovò nel mezzo di un conflitto tra i Lillipuziani convinti di avere ragione a chiamare bastoni il loro seme preferito ed i Blefuscudiani decisamente progressisti che sostenevano di volerlo chiamare picche. La grandezza del supercampione mise tutti d’accordo alla fine, anche se, ci fu una scissione tra le due federazioni che rischiò di un boicottaggio ai giochi invernali di Lilliput.

Le difficoltà riscontrate a livello alfanumerico durante il millennio di dominazione Romana, non furono nulla in confronto a quelle che i discendenti dei capitolini incontrarono dopo la discesa dei barbari. Gente rozza, che alle prime difficoltà nel gioco faceva scintillare le spade, e non quelle del seme delle carte. Attila ad esempio di vantava di non avere mai perso un incontro. Però si dimenticava di aggiungere che non aveva in pratica mai finito una partita, senza mozzare la mano o la testa di chi osava contraddirlo e meno che mai azzardarsi a prendere le carte dal tavolo. L’Unno chiamava sempre e non lesinava di distribuire mazzate a chiunque provasse a fare sua una mano. Alcuni studiosi dell’epoca storica fanno coincidere il periodo, con quello in cui è stato inventato un altro gioco di carte celebre: “il Trisett ciapà no” che era decisamente più consono a quei tempi.


Attila 450 D.C. Uno di noi 2005 D.C.
Similitudini senza tempo tra “Barbari.”

Riuscire ad emergere in quel periodo storico e ad imporre la propria filosofia di gioco era più che mai problematico per le squadre italiane. Ed infatti, le competizioni internazionali furono vinte per molti anni dalle orde nordiche: Unni, Visigoti, Goti, Ostrogoti, Borussia Dortmund, Borussia Monchengladbach ed altre teutoniche squadrette, senza particolare tecnica ma tanta grinta e violenza occuparono territori e zone alte della classifica, relegando gli eredi del mitico Angiolino ad un ruolo di comprimari.

L’evoluzione continua del gioco, allontanò sempre di più tifosi e critica dall’Italia. Il gioco vecchio stile, basato sul contropiede era stato superato dal più irruente e remunerativo metodo di gioco che consisteva nel radere al suolo ogni avversario. L’invasione barbarica aveva spostato quindi il baricentro tattico dal Bel Paese alle fredde foreste del centro nord Europa. Ma la carenza di fondamentali, e la pochezza tattica di un gioco basato solo sulla forza fisica e sull’abuso di alcolici (birra come se piovesse) non garantirono ai nuovi padroni del gioco la stessa robustezza dei predecessori.
Si affacciarono, infatti, nuovi talenti e nuove squadre con unico denominatore comune, quello di raccogliere la pesante eredità del gioco della briscola a chiamata.
“Mr. Angiolino was born in London!” Apparve su di uno striscione al mitico Wembley durante la finale dei mondiali giocata tra la compagine di casa e la Caledonia. E l’eroe di tante battaglie, colui che aveva giocato con nientemeno che Zeus, non rimase sordo a tale affermazione e si accasò ai Tottenham Hotspur con l’intento di ridare prestigio al team londinese caduto un po’ troppo in basso.
«…ohé… ohé… Mister Angiolino!» Cantava tutto lo stadio quando dopo l’annuncio delle formazioni il neo acquisto entrò sul tavolo da gioco. L’esordio era coinciso proprio con il giorno del derby contro gli odiati cugini dell’Arsenal: la classica partita che può valere una stagione.
I tifosi degli Hotspur sembravano entusiasti del nuovo acquisto che nonostante il fisico magrolino e poco prestante, aveva un curriclum vitae di tutto rispetto, e non mancavano occasione per fare sentire all’ultimo arrivato tutto il loro affetto e calore:
«Angiolino ce l’abbiamo noi! Ce l’abbiamo noi.»
Nella fretta di concludere l’affare ed apporre la propria firma in calce sul contratto “l’animale da due” aveva dimenticato di avvisare la controparte, che non disponeva di un perfetto inglese, e che aveva imparato sull’aereo le frasi principali che gli sarebbero servite durante le partite.
«I call the two at seventyeight… of picche!» urlò esordendo il nuovo pupillo dei tifosi gelando le schiene di molti dei presenti. Solo la fortuna, da sempre alleata degli audaci, e più che mai cecata, gli permise di vincere la partita e di regalare ai tifosi del Tottenham la gioia del trionfo nel derby. Ad Angiolino, infatti, “gli si erano confuse le mani” (chi come me c’era quella sera, quando pronunciò questa frase, non può certo averla dimenticata) ed al suo turno aveva pronunciato l’unica frase che gli era passata per la testa. Possedeva, solo l’asse di Picche e senza rendersene conto aveva prima ancora di cominciare già messo a segno la prima cazzata. Trovò come socio Elton John, culattacchione in tutti i sensi.
Il socio possedeva due, sette, fante, donna e re e gongolando inviò un bacino al suo comandante, aumentando così l’entropia nella testa del malcapitato. Angiolino calò un carico, il socio mise con sicurezza il sette di briscola, i giocatori dell’Arsenal sorridendo aggiunsero altri tre carichi e si voltarono verso l’ultimo giocatore, l’ago della bilancia. Il concorrente in oggetto, altri non era che il principe Carlo strappato per l’occasione al polo, causa un brutto foruncolo sulla schiena che non gli avrebbe permesso di essere sellato, e quindi di prendere pare la match tra Tudor e Windsor. A Quel punto l’Arsenal riponeva tutte le sue più floride speranze nel componente a sangue blu, della sua squadra, l’unico londinese presente al tavolo. Il principe, alzò il suo sguardo equino, annuendo e muovendo nervosamente le orecchie. Con quattro carichi sulla tavola, sarebbe bastato prendere per avere partita vinta, già alla prima mano.
La tensione era palpabile. Migliaia di occhi fissavano il principe, che compiaciuto sembrava voler allungare ancora di più l’agonia degli Hotspur. Gli si leggeva in faccia che la briscola ce l’aveva, e anche grossa a giudicare dal lievissimo nitrire che si era lasciato sfuggire.
Tutto successe in un istante. Il componente della famiglia reale si apprestò a calare il suo tre di briscola, quando da una delle porte laterali fece comparsa Camilla Parker Bowles urlante:
«Carlo! Te l’ho già detto che non voglio che ti metti le mie mutande!»
Arrossendo l’equino… volevo dire il principe ebbe un sussulto che gli fece scegliere la carta sbagliata, e calò per errore l’asso di fiori. (Poi, meravigliamoci se gli inglesi non vogliono Camilla come regina.)
Delusione sugli spalti ed in campo, con il mister Wenger, che richiama immediatamente il confuso principe in panchina e mette in campo Dennis Bergkamp al suo posto. La partita però era irrimediabilmente compromessa ed a quel frocione di Elton John, bastò calare in sequenza il suo vasto repertorio di briscole, per mettere in difficoltà tutta la squadra avversaria.
Angiolino grazie al cappotto a settantotto, riuscì a ridistinguere le mani, ed ottenne per la vittoria stracciante nel derby le più alte onorificenze possibili, mentre ad Elton John che lo aveva aiutato in maniera sostanziale, fu permesso di mettere in commercio il suo ultimo successo: “Candle in the wind.”
La rabbia della regina Elisabetta, da sempre simpatizzante dell’Arsenal, si sfogò sul figlio, al quale impose per punizione tre mesi senza carote ed il divieto assoluto di indossare biancheria femminile. Meno che mai, quella appena smessa da quella cozza che sarebbe dovuta diventare la sua futura nuora.
L’astro di Angiolino, sorretto dalla fortuna non durò a lungo nella Britannia. Un po’ più a sud, tre amiconi stavano cercando di dare una “tagliata” al passato aristocratico ed a dare nuova linfa ad un rivoluzionario modo di interpretare il due. Georges Jacques Danton, Jean-Paul Marat e Maximilien Robespierre, fautori di un nuovo modo di interpretare il due, infatti, avevano deciso di liberare la Francia da quel suo vecchio ed aristocratico sistema di gioco. Essi formarono un trio affiatato difficilmente riscontrabile in altre epoche. Neppure il Gre-No-Li di milanistica memoria o quello degli angeli con la faccia sporca (Sivori-Maschio-Angelillo) riscosse lo stesso successo. Attenendosi strettamente ai consigli del loro personal trainer monsieur J. I. Guillotin, che gli fornì anche il particolare attrezzo, utilizzato in allenamento e poi in seguito anche nelle partite, i tre fecero il vuoto intorno a loro. Nessuno dei vecchi giocatori pareva resistere al nuovo metodo che era capitato loro, è il caso di dirlo tra capo e collo.
E fu così che cavalcando l’entusiasmo per i ripetuti successi in ambito nazionale, anche dopo l’eliminazione, stavolta fisica dei tre assi, messi tra l’altro più volte in discussione dall’antidoping, a causa della “presa della Pastiglia” un nuovo mostro sacro si mise in luce e conquistò subito il mondo intero per l’ardire e la genialità delle sue tattiche. Un corso, minuto di statura e prepotente, dal nome altisonante: Napoleone Bonaparte, decise che era giunto il momento per la federazione francese di avere maggior peso a livello prima europeo, e poi anche mondiale. Usurpando il soprannome che un paio di secoli più tardi il mitico Adriano avrebbe guadagnato sul campo di San Siro, il piccolo Imperatore sbancò i campi avversari ottenendo successi a ripetizione.
Per dimostrare la sua grande superiorità, il tenace piccoletto mise a ferro e fuoco i paesi vicini, avanzando ed imponendo a tutti lo strapotere delle sue tattiche. Alla fine del girone di andata, non era difficile prevedere che la sua armata si sarebbe aggiudicata l’intera posta in gioco. Le vittorie schiaccianti a Alessandria d’Egitto, Marengo, Hohelinden, Ulma, Austerlitz, del resto confermavano in pieno i pronostici della vigilia. La Grandeur come napoleone chiamava affettuosamente la sua creatura, dava ampie garanzie in ogni reparto.
Si arrivò così alla vigilia di un importante incontro, che si sarebbe tenuto a Waterloo amena località sita a sud di Bruxelles. Il minuscolo capitano della compagine francese sicuro ormai della vittoria che lo avrebbe consacrato grande fra i più grandi, alla vigilia rinunciò alla solita pretattica e si lasciò andare a frasi tronfie:
«Il duca di Wellington è un pollo. Lo conosco bene, tutte le volte che prova la sporca si innervosisce e comincia ad avere quello strano tic all’occhio. Credo che domani elimineremo per sempre quell’idiota.»
In realtà, in virtù della classifica avulsa a Bonaparte sarebbe bastato un doppio pareggio nelle ultime due trasferte per fare sua la coppa, ma il carattere del capitano francese non lo avrebbe mai portato ad accettare anche la sola idea di abbandonarsi al catenaccio e portare in porto il risultato. Quello che successe, lo sappiamo tutti. Batosta subita nella partita forse decisiva e sconfitta anche a Mosca.



Zero punti in due partite e tutti a casa, vanificando il lavoro di preparazione ai mondiali che i francesi avevano svolto per anni e anni di umili sacrifici.

Ed il gioco del due cambiò ancora dimora, ritornando tra le mani degli eredi dei Barbari, quei prussiani che avevano aiutato da oriundi la squadra del duca di Wellington. I borboni adesso imperversavano da soli e si erano assicurati il predominio della Eureka Champions League. La squadra principe di questo periodo era l’Austria Vienna, che aveva in Prohaska, Schachner e Francesco Giuseppe I° il punto di forza.
In Italia, dove il gioco del Due aveva trionfato per più di un millennio, le cose continuavano ad andare male anche se, nuovi talenti stavano cercando lavorando in incognita di ridare lustro ai fasti di un tempo. Camillo Benso Cavour, soprannominato il conte per i modi aristocratici e la sua mania di emettere dei rutti giganteschi durante le chiamate ed accompagnare le sue giocate da fetentissime scoregge, intuì per primo che i tempi per risorgere erano ormai maturi e parlò del progetto all’amico Mazzini. I due, assoldarono un centravanti di tutto rispetto Giuseppe Garibaldi che con i mille, diedero il nome alle vie principali ed alla piazza del nostro paese. No, andiamo con ordine, il nome a vie e piazze gli sarebbero stati tributati solo in seguito. Prima, facciamoli vincere.
Il conte ed il suo amico tramarono insieme, per creare i presupposti necessari a fare rinascere l’antica tradizione del Due italiano. Un prodotto da esportare, altro che il Gran Biscotto Rovagnati.
Decisero di fondare una nuova squadra, “la giovine Italia” e di provare con essa la scalata al potere del Due mondiale. Per non bruciare troppo precocemente il giocatore più rappresentativo, quel Giuseppe Garibaldi di cui abbiamo già accennato, decisero di mandarlo a farsi le ossa in una squadra provinciale, inviandolo insieme con altri mille compagni a giocare nel campionato di Sicilia. Solamente il Palermo di Totò Schillaci, riuscì in qualche modo a tenere per un po’ il passo dell’armata rossa capitanata dall’astro nascente del due italiano. Il Catania di Massimino invece, nonostante godesse i favori del pronostico, fece una pessima figura e fu eliminato al primo turno.
«Presidente! Con tutti questi nuovi giocatori, alla squadra mancherà certo l’amalgama.» Lo aveva avvertito uno dei giornalisti durante il ritiro precampionato.
«Dimmi in che squadra gioca questo minchione di Amalgama che lo compero subito.» Aveva risposto il presidentissimo.
Così, sforzando tutto il suo impegno alla ricerca del nuovo asso da aggiungere alla squadra per il futuro, l’uomo aveva perso di vista il presente ed il Catania era crollato sotto i colpi delle camice rosse.
L’ombra del doping, si affacciò anche allora sul mondo del due. Il fattaccio avvenne non appena il prode centravanti dei Mille, (così era stata soprannominata la squadra campione di Sicilia) varcò lo stretto trionfante con Anita, la sua compagna di tante battaglie con l’intento di tornare al nord.
I due furono portati davanti al commissario sportivo che richiese subito le analisi ematiche del campione. Non trovando alcun valore alterato, Garibaldi alzò la voce esigendo di essere rilasciato, ma il commissario calabrese fu intransigente:
«Lei è stato fermato all’atto di rientrare nel continente, con una grossa quantità di sostanze stupefacenti. Per questo motivo, io la sto incriminando per importazione clandestina di eroina.»
Ci volle molto tempo agli avvocati difensori del centrattacco, per spiegare che l’unica eroina presente era Anita, la compagna di Garibaldi, e che essa non poteva essere certo considerata sostanza stupefacente.
Il dottor Massimo Moratti intanto, entusiasmato dalla classe del nizzese, tentò un blitz scendendo al sud con il suo aereo privato per cercare di convincerlo a firmare per la sua squadra. Gli offrì uno di quei contratti, che solo lui è in grado di regalare ai suoi pupilli. Garibaldi, lusingato dalla corte serrata del patron di una delle squadre più famose d’Italia, avrebbe firmato subito, in quell’amena località del sud, se non fosse successo l’imprevedibile.
A Teano, luogo dell’incontro tra Garibaldi ed il dottor Moratti giunse veloce come un fulmine Vittorio Emanuele II°, che ricordò al campione l’opzione con i Savoia: contratto stipulato grazie al conte Cavour che legava immagine e servigi del campionissimo con la “giovine (si scrive così, ma si legge Juventus) Italia” e fece presente anche la ferma intenzione di esercitare il diritto di opzione, mandando in fumo i progetti del presidente nerazzurro che si dovette consolare di comperare Ince al mercato di ottobre.

In ogni caso i tre, supportati anche da Giuseppe Verdi che accompagnò le gesta trionfali dell’Italia con le sue musiche, ridiedero splendore al gioco all’italiana che risorse finalmente. Tra l’altro, l’Angiolino nazionale, vista la male parata dopo aver contribuito in maniera sostanziale con le sue cazzate a fare fallire l’intera società Dueistica inglese, prese la palla al balzo e fece ritorno in patria. Aveva, l’intrepido ometto, anche fatto un tentativo di riciclarsi negli Stati uniti, dove però il due faticava a prendere piede ed a ritagliarsi quello spazio, che il poker stentava a concedere. Tra l’altro anche ad uno sprovveduto (e gli sto facendo un regalo) come lui, era bastato assistere ad un paio di partite terminate con altrettante sparatorie, per comprendere che ‘sti americani disponevano di meno fair play rispetto agli inglesi che lo avevano pure cacciato dal Regno Unito a pedate nel culo, e che gli sarebbe stato difficile mantenere intatta la pellaccia qualora avesse avuto la malaugurata idea di sbagliare a giocare una carta.
Dopo avere ricostruito la propria fama ed avere ripreso il posto che le spettava nel ranking mondiale della DUEfa, l’Italia all’inizio del ventesimo secolo, cominciò a sentire la necessità di riprendersi anche a livello internazionale. Si buttò a capofitto nel primo conflitto mondiale e riuscì a mettersi dietro Teutonici e soprattutto una volta per tutte i Borboni.
L’avvicendamento di campioni portò in contemporanea, due nuovi talenti naturali ai massimi vertici mondiali. Mussolini a guidare l’Italia ed Hadolf Hitler, a spingere in alto la sua Germania, appena ripresasi dalla prima batosta mondiale cui era seguito il logico esonero dell’allenatore. Di carattere molto ambizioso, i due si allearono con l’intento di riuscire insieme a dominare il mondo del due e di lasciare agli altri solo le briciole, (un po’ quello che succede nel calcio tra Juve e Milan.)
Logica conseguenza della politica autarchica della federazione italiana, fu quella di richiamare in patria qualunque elemento potesse richiamare gli antichi fasti del glorioso passato. Mussolini stesso mise a punto un piano in cui si diceva certo di riportare a casa, “la gioconda,” trafugata da quei maledetti francesi con la erre moscia, e Angiolino, l’uomo monumento per antonomasia. Il mitologico “animale da due” che era caduto in disgrazia alla corte della regina Elisabetta, e per il quale gli inglesi avevano apportato qualche modifica al proprio inno nazionale:
“God save the Queen, e manda a ca sua Angiulen…”

Il nostro uomo colse l balzo l’ennesima opportunità che cotanto culo gli aveva offerto, e nottetempo si imbarcò sulla Queen Mary sbarcando felice nel porto di Genova.
«Finalmente sono a casa! Ora sono certo che l’Italia vincerà i prossimi mondiali.» Affermò l’eroe nazionale, nel momento in cui appoggiò dopo tanti anni il piede sul suolo italico.
Hitler non era entusiasta che tale giocatore tornasse in patria e meno che mai che potesse essere considerato un eroe dal suo amico Benito. Lui aveva un’altra ed alta, considerazione di quello che avrebbe dovuto essere un eroe nazionale e non mancò di farlo presente:
«Qvello lì non piace. Non è biondo, non è alto, e non ha neanche gli okki azzurri…»
«Dai Adolfo, non mi fare l’immaginifico! Lo so ben anche io che non è un ariano come lo vorresti tu. Ma devi considerare che…»
Il duce convinse il suo alleato a lasciare perdere promettendogli, che non avrebbe mai schierato la sua punta di diamante nelle partite tra le camicie nere e quelle brune. Soprattutto, gli assicurò che dopo avere recuperato da Parigi, il tanto anelato quadro di Leonardo da Vinci, avrebbe lasciato a lui l’onore di radere al suolo l’intera capitale francese.
In condizioni normali convincere il crucco non sarebbe stato così semplice, ma il duce sapeva il fatto suo. Aveva scoperto un punto debole del suo alleato e non perdeva occasione per approfittarne. Tutte le volte che doveva trattare con lui, usava mettere come sottofondo musicale “La cavalcata delle valchirie” e con quello stratagemma riusciva ad ottenere quello che voleva.
In realtà, il baffetto tedesco, aveva la mente altrove. Aveva già battuto mezza Europa, e sconfitto la linea Maginot dei francesi. Puntava diritto ad est per sfidare Dinamo Kiev e Spartack Moska, ma soprattutto stava vagliando l’ipotesi di accettare le lusinghe dell’imperatore Hiro Hito, e di permettergli di entrare a fare parte della sua coalizione. Questa alleanza avrebbe creato i presupposti per esercitare l’opzione sul cartellino di Nakata e forse anche di Ono e Nakamura. Logicamente poi, avrebbe permesso al grande dittatore di ottenere uno sconto particolare per l’acquisto di una Kawasaky, la sua moto preferita.
Le ostilità intanto erano riprese, e per la nuova alleanza le cose non andavano particolarmente bene. Se le squadre tedesche vincevano a mani basse un po’ dappertutto, L’Italia impegnata nella coppa d’Africa faticava assai a venirne a capo. I nipponici, nonostante il grande impegno e qualche buona prestazione, contro il Pearl Harbour innanzitutto, non erano ancora riusciti a sfondare ed a dare continuità alle loro vittorie.
Angiolino poi, se stava incidendo nelle partite, lo stava facendo sempre in maniera deficitaria, riuscendo a perdere partite già vinte con giocate a dir poco idiote. Il poverino si difendeva addossando al fatto che gli inglesi ormai lo conoscevano, e che sapevano come prevedere le sue mosse.
Poi, ci fu la grande svolta. Il campione portacolori della squadra italiana, organizzò una conferenza stampa a piazza Venezia, per dichiarare il suo intento di lasciare l’attività agonistica.
«… mi sono reso conto che nella condizione attuale non sono in grado di fornire con il mio gioco pur brillante, il necessario apporto di concretezza alla nostra squadra. Pertanto, dichiaro che da oggi stesso abbandonerò l’attività agonistica.»
Il duce al suo fianco, che aveva assistito a tutta la dichiarazione con il braccio destro levato in un prolungato saluto romano, ruppe il silenzio e gli chiese:
«Mio eroe. Allora vorresti dire che abbandonerai definitivamente il mondo del due?»
Nel tono della domanda di Mussolini, si poteva leggere la delusione per quanto avrebbe potuto essere e non era stato, e di sollievo per il fatto che l’imbecille si togliesse finalmente dalle palle, rescindendo il proprio oneroso contratto.
«No! Non giocherò più, ma dedicherò anima e corpo a procreare ed a cercare di mettere al mondo degli eredi che potranno contribuire alla nostra causa.»
Emissari dell’alleanza presenti alla conferenza inviarono immediatamente dei dispacci urgenti alle proprie ambasciate, con il messaggio tradotto in madrelingua.
Le contromisure degli alleati furono immediate: il dottore giapponese Ogino ed il suo esimio collega austriaco Knaus, furono incaricati di rendere impossibile il progetto del famigerato campione italiano.
Indipendentemente, i due ricevettero l’ordine di lavorare allo stesso progetto, che tra l’altro il fhurer sognava di concretizzare al più presto. Voleva estendere il risultato di tale studio, anche per risolvere il suo annoso problema con le minoranze ebraiche, essendosi accorto leggendo i bilanci, che mantenere aperti tutti quei campi di concentramento, cominciava a gravare sull’erario.


Esperimenti in casa Knaus.

La storia, implacabile ci racconta come andò a finire. Italiani, tedeschi e soprattutto i giapponesi furono messi da parte e dovettero ancora una volta ripartire da zero, per risalire i valori della graduatoria DUEfa. I tedeschi persero il loro leader che non reggendo alla sconfitta, quando ormai pregustava il successo si sparò un colpo. Gli italiani dopo l’illusione di ripartire in grande dal Salò, dovettero rimboccarsi le maniche e ricominciare dal basso. I giapponesi nonostante la profonda sconfitta che li relegò definitivamente nella serie B del due mondiale, invece che contestare il loro presidente per tutti gli errori commessi e le scelte tecniche scellerate, continuarono ad idolatrare Hiro Hito, non mancando mai di dedicargli qualche suicidio, in onore di qualsiasi sua nuova affermazione.
E Angiolino? Quel diavolo di Angiolino ne uscì come sempre indenne. Superò anche questo momento burrascoso e poi, con il tempo si ripresentò a giocare ai tavoli del due, illuminando tutti per la sua tecnica sopraffina. Anzi, non mi meraviglierei, di vedermelo arrivare qualche venerdì sera e di trovarmelo nuovamente di fronte.